Riesce difficile pensare che ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, oltre che ai libanesi, possa succedere qualcosa di peggio di quanto non sia loro già accaduto dal 7 ottobre 2023 a oggi. Cioè da quando il governo più a destra della storia d’Israele ha cominciato a bombardare la Striscia come ritorsione della strage di israeliani a opera di Hamas (circa 1200 morti), provocando finora 43.000 vittime. Il tutto è avvenuto con l’aiuto indiscusso della Casa Bianca, dove Biden siederà fino a gennaio. La cosa sorprendente riguarda i numeri di questo appoggio: secondo un recente rapporto pubblicato dal progetto “Costs of War”, della prestigiosa Università Brown, gli aiuti militari provenienti da Washington, ultimamente, sarebbero senza precedenti dal 1959, da quando cioè gli Stati Uniti cominciarono ad aiutare economicamente lo Stato ebraico.
Si tratterebbe di 17,9 miliardi di dollari in un solo anno. Un vero e proprio record. Senza contare, secondo quanto riporta l’Associated Press, l’aumento della presenza militare nella regione, con l’arrivo di circa 43.000 soldati, per un ulteriore costo di 4,86 miliardi di dollari. Un quadro che conferma, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l’ipocrisia e la falsità dietro gli appelli alla moderazione della Casa Bianca nei riguardi del premier israeliano.
Ma la vittoria nelle elezioni statunitensi di Trump, ovvero del peggiore presidente della storia di quel Paese – anche se su questa definizione andrebbero fatte delle precisazioni –, stanno spingendo l’autore di un vero e proprio genocidio, così come lo sta valutando il Tribunale penale internazionale, a chiedere ancora di più, facendosi forza dell’arrivo di un presidente americano suo omologo di estrema destra. Insomma, il ritorno dei repubblicani al governo, solitamente più filoisraeliani dei democratici, rischierebbe di peggiorare la situazione nell’area, rendendo più lontana una tregua.
Ma le cose per Netanyahu potrebbero andare diversamente, qualora Trump mantenesse la promessa di non aprire nuovi conflitti e di risolvere quelli attuali, il che mal si concilia con le intenzioni israeliane. È prestissimo per fare delle previsioni, ma le priorità per il tycoon potrebbero essere quelle di coniugare gli scenari geopolitici con le necessità di carattere economico. Un percorso difficilmente associabile a un ulteriore aggravamento del conflitto in Medio Oriente, funzionale soprattutto agli interessi di bottega diNetanyahu, attento solo a mantenere a galla il suo esecutivo per non finire in galera.
Una delle priorità di Trump, intanto, sarà l’assetto geopolitico asiatico, anzitutto la Cina e la regione circostante. E una definizione degli interscambi commerciali. Gli interessi statunitensi potrebbero andare così in una direzione opposta a quella voluta da Tel Aviv: nel senso cioè di ridare fiato agli “accordi di Abramo” del 2020, ovvero alla normalizzazione dei rapporti tra Israele, gli Emirati arabi uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan. Un’intesa il cui limite fu di ignorare il permanere della questione palestinese, e che è ormai congelata da tredici mesi. Com’è congelato un possibile accordo con l’Arabia saudita, la cui normalizzazione dei rapporti con Israele fu bloccata dagli eventi del 7 ottobre.
L’intesa con Riad torna a essere una priorità, in quanto luogo di possibili quanto fruttuosi investimenti, a partire dalla costruzione di infrastrutture. Pragmatico come sarebbe sugli scenari internazionali, Trump potrebbe ritornare sui suoi passi anche sul fronte del nucleare iraniano, malgrado, a suo tempo, abbia cancellato l’intesa realizzata da Barack Obama. E, contrariamente a quanto spererebbe il leader del Likud, non ci sentiamo di escludere un suo attivismo per porre fine al conflitto tra Israele, Hamas, Hezbollah e l’Iran. Potremmo trovarci di fronte a scenari imprevedibili. Il mantenimento, se non il peggioramento, del conflitto in quell’area serve solo a Tel Aviv.
Si tratterebbe di “un ostacolo pericoloso per il Medio Oriente del business guidato da sauditi e americani, al quale pensa Donald Trump – dice Ugo Tramballi, ricercatore presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) –, l’ipotesi è forse eccessiva, addirittura fantascientifica: ma il presidente potrebbe anche fare pressione su Netanyahu per favorire la nascita di uno Stato palestinese. Non che a Trump interessi qualcosa dei palestinesi. Ma dopo i massacri di Gaza – sottolinea Tramballi –, quella di un negoziato per la loro indipendenza è ormai diventata la conditio sine qua non perché i sauditi riconoscano Israele”.
Sostenere che i palestinesi potrebbero tirare un sospiro di sollievo di fronte a questo ipotetico scenario sarebbe certo azzardato. Quello che è sicuro, però, è che non sarebbe l’attuale leader dello Stato ebraico a gestire il percorso descritto. Se andasse in questa direzione, il suo governo, nelle mani dell’estrema destra messianica, durerebbe ancora soltanto cinque minuti; i nuovi protagonisti della politica israeliana potrebbero essere quelli defenestrati in questi giorni, ovvero l’ex ministro della Difesa, Gallant, ed esponenti di spicco dell’esercito e del Shin Bet, i servizi segreti interni. Insomma, se Trump ci riservasse delle sorprese, lo smacco per i democratici americani sarebbe clamoroso, e non mancherebbe di avere delle ripercussioni anche in un mondo a noi più vicino.