Ora che è finita se ne accorgono tutti. Qualcuno si stupisce. Sono quelli che hanno pensato che Kamala Harris potesse farcela. Cosa molto improbabile: non solo perché donna e nera in un’America in cui si perpetuano sacche di razzismo e di misoginia, e prolifera come non mai l’ignoranza, ma perché, con il suo limitato benpensantismo, non incarna lo spirito dell’epoca. Il tentativo di Kamala di istituire una linea di continuità con il business as usual, che aveva caratterizzato l’amministrazione Biden, si è infranto contro una sorta di cupo revanscismo che attraversa come una malattia endemica tutto il Paese. E non è solo l’America a respirare quest’aria sinistra; echeggia anche in un’Europa in cui le socialdemocrazie stentano e l’elettorato corre scompostamente a destra.
Sullo sfondo le guerre in corso, le incertezze degli equilibri planetari, l’insicurezza della propria condizione economica. Si direbbe che gli elettori di Donald Trump siano stati motivati soprattutto dalla percezione di una situazione di pericolo. I sondaggi avevano mostrato, già all’inizio di quest’anno, che una gran parte dei repubblicani, e anche una piccola parte dei democratici, si sentivano tranquillizzati dall’idea di avere un uomo forte o addirittura l’esercito al timone del Paese. Un torbido miscuglio tra il sentire minacciata la propria condizione economica e la sensazione che all’America tocchi ormai di intraprendere una strada completamente nuova, ha probabilmente motivato gli elettori a scegliere chi sembrava loro proporre un’alternativa radicale, soprattutto negli Stati in cui la partita era incerta.
Per non parlare del ruolo della propaganda, degli oltre cento milioni di dollari messi a disposizione solo da Elon Musk per la campagna elettorale di Trump. Non a caso il neopresidente, nei primi festeggiamenti, lo ha celebrato: “È nata una stella”, e pare che gli abbia proposto una posizione nel governo. Una propaganda che è echeggiata ovunque, basata su messaggi populisti elementari: fare di nuovo grande l’America, rilanciarne il potere militare ed economico. Il modo in cui Trump avrebbe poi realizzato tutto questo diventava di secondaria importanza, a fronte della forza del segnale. Harris si è trovata, invece, di fronte al classico problema dei democratici. Ha cercato di spiegare, di usare argomentazioni complesse, ha presentato un programma prolisso in una fase cui gli americani volevano solo immagini, emozioni e testi brevi.
I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza anche al Senato e, con ogni probabilità, alla Camera dei deputati. La maggioranza in Senato è essenziale per l’approvazione di leggi chiave e per l’indirizzo della politica estera. Il quadro si fa dunque ancora più fosco, dato che il controllo delle principali istituzioni di rappresentanza li autorizza all’attuazione di un’agenda politica estremamente radicale, che potrebbe discostarsi anche di molto dalla classica politica repubblicana, da un conservatorismo alla Ronald Reagan. Trump sarà libero di impazzare a suo piacimento, dato che né il Senato né la Camera dei deputati saranno in grado di limitarne l’azione, con buona pace del principio della separazione dei poteri e con possibili ricadute sulle stesse strutture portanti della democrazia americana.
Al di là di quello che potrà avvenire sul piano della politica interna, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca il mondo si prepara a vivere nuove turbolenze. Isolazionista e imprevedibile il presidente ha promesso di porre fine rapidamente alla guerra in Ucraina, costringendo Kiev a fare concessioni ai russi. Dato che ritiene che “questa guerra non avrebbe mai dovuto scoppiare”, probabilmente chiuderà rapidamente i rubinetti del sostegno economico agli ucraini. Ha dichiarato, inoltre, di volere erigere una barriera protezionistica sulle importazioni, con l’introduzione di dazi doganali punitivi. Vuole alzarli tra il 10 e il 20% per tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti, e fino al 60% per quelli provenienti dalla Cina; si parla addirittura del 200% per alcune tipologie di merci. L’obiettivo dichiarato è aumentare le entrate fiscali e utilizzare i dazi doganali come arma di negoziazione contro Paesi che, come la Cina, “ci stanno massacrando” – come ha ripetuto ossessivamente durante la campagna elettorale, incoraggiando così le aziende a rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti, in omaggio al fantasticato reshoring, la vagheggiata reindustralizzazione del Paese. Evidentemente, anche l’Europa risentirebbe di un simile aumento dei dazi, in particolare la Germania, particolarmente esposta sul mercato americano.
E c’è di peggio: sul tavolo c’è l’uscita dagli accordi di Parigi sul clima del 2015. Già durante il suo primo mandato, Trump aveva ritirato gli Stati Uniti dagli accordi, in cui Biden è rientrato nel gennaio 2021. Nel quadro degli impegni sottoscritti a Parigi, gli Stati Uniti si erano impegnati a ridurre della metà le proprie emissioni di gas serra entro il 2030. Nel 2023 la riduzione è arrivata al 18%. Ma l’obiettivo rischia ora di sparire, con un impatto enorme sul riscaldamento globale. Trump ha dichiarato di volere “trivellare a tutti i costi”, e ha messo apertamente in discussione la realtà del riscaldamento globale.
In bilico c’è anche la partecipazione americana alla Nato. Sono ancora nella memoria di tutti le roboanti dichiarazioni trumpiane contro i Paesi europei, colpevoli ai suoi occhi di non finanziare abbastanza da soli la loro difesa. All’inizio dell’anno, il neopresidente ha minacciato di non difendere più i Paesi della Nato che non rispettano il loro impegno di contribuire al bilancio dell’Alleanza, accusandoli di essere “cattivi pagatori”. L’idea, peraltro prevista da una delle clausole di mutua assistenza della Nato, è che l’America li proteggerà solo se pagano, con il rischio di mettere uno contro l’altro i Paesi dell’Unione europea.
Si va, infine, verso un aumento delle tensioni con la Cina, che può aspettarsi quattro anni di sovrattasse doganali e scontri verbali, anche se la Cina ha indicato di volere una “coesistenza pacifica” con gli Stati Uniti, indipendentemente dal vincitore delle elezioni. Trump ha promesso di imporre dazi doganali del 60% su tutti i prodotti cinesi che entrano negli Stati Uniti. Se attuata, questa proposta potrebbe colpire un valore di cinquecento miliardi di dollari di beni cinesi importati. Già durante il suo primo mandato, aveva scatenato una feroce guerra commerciale contro il colosso asiatico. Quella del 60% potrebbe però anche essere una “sparata” tesa ad accreditarsi poi come negoziatore. In ottobre, si è vantato di un “rapporto molto forte” con il presidente Xi Jinping, e ha affermato che sarebbe riuscito a dissuaderlo dal lanciare un’operazione militare contro Taiwan, imponendo dazi doganali del 150%. Certo la Cina, con un’economia che vive una fase non ottimale, probabilmente non vuole ulteriori tensioni con gli Stati Uniti, che rimangono il suo principale partner commerciale; ma è chiaro che simili misure, se attuate, moltiplicherebbero gli attriti tra le due superpotenze.
Dal vaso di Pandora appena scoperchiato nello Studio ovale, sembra che ci si debba aspettare insomma una bella serie di guai.