“Mentre si spende in armi, sulla scuola non si fanno investimenti, anzi vengono tagliati quarantuno milioni” – gridava sabato 26 ottobre la rappresentante degli studenti medi, Bianca Piergentili, dal palco del corteo contro la guerra che ha sfilato a Roma, da piazzale San Paolo al Colosseo: “Si tagliano finanziamenti e organico, laddove ce ne sarebbe più bisogno e si sceglie ancora una volta di investire nella violenza, nelle guerre”. La manovra di bilancio del governo Meloni, recentemente firmata dal presidente della Repubblica e in questi giorni presentata a Bruxelles dal ministro dell’Economia Giorgetti, introduce tagli significativi in vari settori, con un impatto notevole sul sistema scolastico, mentre strizza l’occhio all’industria bellica.
Si vuole una riduzione di 5.660 unità di docenti e 2.174 unità di personale Ata, a partire dall’anno scolastico 2025-2026. Con migliaia di persone da anni in attesa di ricevere una cattedra, che vivono mesi di supplenze, graduatorie infinite e costosissimi corsi di abilitazione, un ulteriore taglio sembra affossare qualsiasi speranza di trovare una stabilizzazione. Sebbene il ministero dell’Istruzione e del Merito abbia chiarito che si tratta di una misura transitoria e che il cosiddetto turn over non sarà completamente bloccato, cresce la preoccupazione tra chi ha investito anni e soldi in preparazione. Anche i docenti già di ruolo temono le ripercussioni significative sui servizi amministrativi delle scuole, già in difficoltà.
Come ha sostenuto la deputata del Pd, Irene Manzi, “l’avvio caotico di questo anno scolastico all’insegna di classi numerose e segreterie oberate da impegni sempre più gravosi avrebbe imposto altre scelte”. I tagli sono infatti stati giustificati dalla prevista diminuzione della popolazione scolastica, che, per effetto del calo delle nascite, scenderà ancora in futuro, con 1,4 milioni di alunni in meno previsti nel 2032. Questi calcoli però non solo non prendono in considerazione la presenza crescente di stranieri, adulti e minori, che vogliono completare gli studi in Italia, ma si muovono troppo in anticipo, rischiando di aggravare la situazione nelle aule, ancora in ripresa dagli anni di pandemia.
Una piccola folla di bandiere sindacali (Flc-Cgil, Cisl Scuola e Uil Scuola) si è riunita davanti alla sede del ministero il 31 ottobre, per protestare contro manovre che “non si vedevano dai tempi della Gelmini”. Nonostante fossero in pochi – l’adesione allo sciopero si è fermata al 2,4% secondo i dati ufficiali –, il movimento potrebbe crescere e spingere al fine di ottenere che ci siano investimenti congrui nell’istruzione.
Al contrario dell’esigua protesta dei docenti, la parata militare del 4 novembre in occasione della Giornata delle forze armate, appare oggi più che mai come una celebrazione inutile. Ma hanno certo di che festeggiare. Infatti, il bilancio prevede 11,7 miliardi di euro di spese per il personale operativo della Difesa: oltre al totale per i carabinieri impiegati nelle missioni all’estero, si contano 5,95 miliardi di euro per l’esercito, 2,3 miliardi di euro per la marina e 2,87 miliardi di euro per l’aeronautica. La previsione di spesa totale dedicata al ministero della Difesa, per il 2025, è cresciuta di oltre 2,1 miliardi di euro rispetto alle previsioni per il 2024. “Per la prima volta nella storia viene superata (e di gran lunga) la quota complessiva di trenta miliardi” – commenta Francesco Vignarca, tra i coordinatori della Rete italiana pace e disarmo. Il governo si è difeso sostenendo di attenersi alle regole di austerità previste dal Patto di stabilità europeo. Tuttavia, l’Italia è tra i Paesi dell’Unione con il maggior aumento annuo della spesa militare, +12,5%, superando così anche la Germania, rimasta al +10%. Secondo Milex, l’osservatorio sulle spese militari italiane, lo scarto è stato del +61% in dieci anni, ossia 11,9 miliardi in più. Tutto ciò mentre gli investimenti pubblici nei servizi educativi in relazione al Pil sono diminuiti dell’11%, tra il 2015 e il 2021 (dati di Save the Children), e l’Italia rimane al di sotto della media dei trentotto Paesi dell’Ocse per quanto riguarda la spesa nell’istruzione.
E i tagli sono arrivati anche al “fondo automotive”, che doveva sostenere la transizione verso l’auto elettrica, ridotto da un miliardo a soli duecento milioni di euro l’anno, dopo il 2025. Questo significa che sarà molto più complicato accedere ai bonus per l’acquisto di veicoli elettrici, andando così a colpire un settore che impiega oltre 270.000 persone. Già in difficoltà per i rapidi cambiamenti delle normative ambientali e dalle pressioni del mercato cinese, le imprese del settore avranno una minore capacità di investimento in tecnologie sostenibili. Undici organizzazioni riunite nell’Alleanza clima e lavoro hanno commentato in un comunicato: “È una decisione incomprensibile, miope e autolesionista. Fare cassa mettendo a rischio il futuro di migliaia di lavoratori e imprese. Va investito molto di più su una giusta transizione ambientale e sociale, verso una mobilità a zero emissioni”. Sapendo, inoltre, che tredici dei trentuno miliardi andranno nella ricerca per produrre armi di nuova generazione, bisogna ricordare che il settore degli armamenti è tra i più inquinanti. Secondo lo studio “Decarbonize the Military: Mandate Emissions Reporting”, pubblicato sulla rivista scientifica “Nature”, il comparto militare genera tra l’1 e il 5% delle emissioni di gas serra totali nel mondo. Basti pensare che l’Ariete, il principale carrarmato dell’esercito italiano, ha bisogno di quattro-cinque litri di gasolio per ogni chilometro percorso.
Se per la Giornata delle forze armate è stata allestita la fiera delle armi al Circo massimo a Roma, tra veicoli dell’aeronautica, stand mimetici e tricolori, le due grandi partecipate dello Stato, Leonardo ed Eni, hanno potuto festeggiare il successo delle loro azioni di lobbying. Ma ci si chiede cosa faranno i nuovi droni militari contro le prossime alluvioni – e chi si occuperà di insegnare la pace alle nuove generazioni.