Nessun ottimismo della volontà potrà compensare il pessimismo della ragione con cui commenteremo fra qualche ora la paventata vittoria di Trump. E nessuna saggezza potrà frenare l’ebbrezza dello scampato pericolo che ci prenderà se Kamala Harris dovesse davvero entrare nello studio ovale della Casa Bianca. Siamo sulla soglia dell’evento più osservato e analizzato del mondo, eppure nessuna sofisticata intelligenza, né naturale né artificiale, riesce a districare questo gorgo elettorale. Chi vincerà?
I sondaggi e le analisi, persino dei più progressisti tra i commentatori, sono inchiodati da giorni sulla constatazione che siamo a un testa a testa millimetrico. Un’impasse che, per insondabili meccanismi del voto americano, e per un’asimmetria della voglia di votare, sembra inesorabilmente favorire proprio il candidato più estremo. L’alchimia delle previsioni si è ridotta ormai a misurare gli effetti di fenomeni del tutto frivoli, come le diete degli elettori o gli eventi meteorologici, per capire come si potranno spostare quei pochi voti che decideranno la contesa, nei pochissimi Stati chiave.
Proprio questa “marmorizzazione” dei due schieramenti, del tutto refrattari a qualsiasi sobbalzo o gaffe di uno dei due candidati, lascerà alla fine il potere di decidere a poche decine di migliaia di votanti, in una manciata di contee, che sposteranno un pugno di grandi elettori da un campo all’altro. Già questa è una vittoria per il plurinquisito ex presidente, che torna più incarognito ed estremista di prima.
Tutti i reportage hanno mostrato le due facce dell’America: la frustrazione e il rancore della provincia bianca e povera della vecchia rust belt, la “cintura della ruggine”, delle aree di antica e ormai devastata industrializzazione, che connette le due coste più felici, dove le grandi città dell’immaginario statunitense, da New York a Los Angeles, celebrano i fasti di élite finanziarie e tecnologiche che si spartiscono guadagni incommensurabili. I poveri, con la destra reazionaria trumpiana, i ricchi con i liberaldemocratici. Un paradosso che ormai è diventata una regola in tutto l’Occidente, dove si rovescia il famoso aforisma maoista, che prevedeva che le campagne – rivoluzionarie perché affamate – avrebbero assediato le città conservatrici perché sazie. Oggi, dagli Stati Uniti all’Europa, all’America latina, sono le città che ancora si permettono il lusso di un riformismo libertario, mentre le campagne, o comunque le periferie, si radicalizzano nella protesta contro ogni buonismo che favorisca masse ancora più povere o ancora più escluse. Siamo dinanzi a uno scontro fra due alleanze: i primi con gli ultimi, contro i secondi con i penultimi.
La geografia dei consensi, che vediamo nelle mille mappe elettorali, dove il rosso degli Stati trumpiani separa le due strisce delle coste democratiche, ci fa intendere come, rispetto a qualche anno fa, non siamo più dinanzi a due culture diverse, ma proprio a due Stati, due idee di America inconciliabili. Ai tempi di Bush, soprattutto dopo la prima vittoria contro Al Gore, si parlava di America verticale, quella dei grattacieli, contro quella orizzontale, le pianure agricole. Un saggio lucidissimo – scritto da due grandi giornalisti, John Micklethwait e Adrian Wooldridge –spiegava, nel 2004, che allora la destra non voleva fare nuove leggi ma voleva abrogarle. Eravamo al tempo dei neocons, quel movimento antistatalista e reazionario che voleva aggiornare il reaganismo con lo slogan: “il governo è il problema”. Chiave di volta era il dualismo fra gruppi evangelici, che scendevano in campo a favore dei repubblicani, che volevano cristallizzare ordine sociale e gerarchie politiche, e la nuova ondata di tecnologie digitali, che spingevano invece per sovvertire quegli equilibri, aprendo la porta alla partecipazione sociale.
Vent’anni dopo, la destra è andata avanti, mentre la sinistra è rimasta ferma all’antifascismo. Il passaggio da Bush a Trump è un cambiamento antropologico. Con il biondo miliardario politicamente scorretto e trasgressivo, le spinte reazionarie sono entrate nelle città, e hanno contaminato il libertarismo dei ceti produttivi, trasformandolo in un liberismo non solo antigovernativo ma dichiaratamente antistatalista.
Elon Musk sta con Trump perché vuole sovvertire davvero l’ordine, annientando ogni controllo e limite istituzionale. Esattamente come i ragazzi dei garage della California volevano liberarsi dalle burocrazie centralistiche della fine degli anni Novanta. La politica da strumento alternativo è diventata il nemico: bisogna ridurre ogni procedura pubblica, centralizzare le decisioni amministrative e trasformare tutto in un automatismo algoritmico. Un giacobinismo oltranzista e autoritario, che si basa sul consenso popolare di figure snobbate e ignorate dalla borghesia intellettuale metropolitana, che si vendicano usando ipotetici forconi contro dei liberatori che li disprezzano.
Ma anche uno scenario da Diciannovesimo secolo, quando le rivolte indipendentiste in Europa, innestate da giovani aristocratici illuminati o tecnocrati militari nazionalisti, venivano stroncate da plebi in armi che difendevano il clero e l’aristocrazia. Ricorderemo la mitica rivoluzione del 1799 a Napoli, dove un pugno di liberali colti, che avevano rovesciato la monarchia borbonica, venne assediato dai lazzari calabresi guidati da cardinale Ruffo. Il buco nero di questa dinamica non è il centro, ma la capacità di accendere una speranza alternativa nel cuore di milioni di sconfitti. Manca una sinistra che sveli la truffa del sovversivismo opportunista, di caudillos e cosche che usano la politica per insediarsi alla testa dei centri della spesa pubblica.
Trump chiuderà il cerchio aperto in Ucraina da Putin: costruire un mondo dove la democrazia sia un’eccezione ingombrante e costosa. Lo farà permettendo al regime neo-zarista russo di sfondare verso Kiev. Appoggerà l’oltranzismo dell’attuale governo israeliano, e dovrà, con i buoni uffici del Cremlino, trovare un modus vivendi con la Cina, riducendo gradualmente la dipendenza dai microchip di Taiwan.
Ma se invece la cabala elettorale darà lo 0,1% in più ai democratici di Kamala Harris allora vedremo la scissione dell’impero: avremo Roma e Bisanzio, e gli Stati del sud americani scivoleranno sul filo della secessione. L’intera società statunitense entrerà in un clima da guerra civile: ognuno si separerà dal suo avversario, a cominciare dalla Silicon Valley. Uno scenario davvero pericoloso, che potrà giovare a chi penserà di sfruttare l’occasione per ridimensionare l’egemonia americana – in nome delle dittature orientali, non del socialismo.