L’esito delle prossime presidenziali americane è talmente incerto che anche i maggiori istituti di sondaggio non si arrischiano ad azzardare pronostici, in quanto il divario tra Kamala Harris e Donald Trump nei cosiddetti “Stati oscillanti” (swing States), sempre decisivi, è così limitato da rendere impossibile qualunque previsione fondata. Questa situazione mostra, una volta di più, l’irrazionalità e la limitata democraticità del sistema elettorale americano, che ancora consiste in una forma di elezione indiretta, per di più regolata dal principio del winner takes all, che in certi casi ha portato al capovolgimento del voto popolare (vedi qui). Detto per inciso: quando, nel 2016, questo capovolgimento portò all’elezione di Trump, invece che di Hilary Clinton, molti dei nostri politici e commentatori di area “liberal-progressista” si strapparono i capelli, lamentando appunto l’iniquità di tale sistema elettorale. Curiosamente, però, questi stessi politici e commentatori non cessano di celebrare gli Stati Uniti come il modello della democrazia, inevitabilmente tacciando di “anti-americanismo preconcetto” chi osa criticarla: un buon esempio di schizofrenia, e, forse meglio, di “bipensiero” nel senso di Orwell. Sarebbe interessante vedere come reagirebbero nel caso in cui Kamala Harris, pur ottenendo meno voti popolari, raggiungesse invece la maggioranza dei voti elettorali, e quindi diventasse presidente.
Il problema da discutere è però un altro: qual è l’esito che chi si colloca a sinistra dovrebbe augurarsi, anche solo come male minore? Per sgombrare il campo dalla frusta obiezione che “oggi non ha più senso distinguere tra destra e sinistra”, che è più spesso avanzata da chi è di destra, ma talvolta anche da chi si dichiara di sinistra, bisogna chiarire qualche punto fermo. Una maggiore giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (per citare l’art. 3 della nostra Costituzione), il battersi per una convivenza pacifica tra tutti i popoli del pianeta, sono idee (solo per citarne alcune) che hanno tutte le loro radici nelle tradizioni della sinistra; se poi alcune di esse sono diventate patrimonio comune, tanto da essere professate anche da chi si dichiara di destra, ancora meglio. Il fatto poi che siano citate nella nostra Costituzione non significa che siano da portare avanti soltanto in Italia: il loro valore è universale.
Ora, ci si può domandare quale dei due candidati alle presidenziali americane si presenti come più disposto a rispettare queste idee e, soprattutto, a favorirne la realizzazione pratica. Per quanto riguarda la giustizia sociale, Harris e in generale i democratici, come dice Emiliano Brancaccio nell’intervista rilasciata a Paolo Andruccioli (vedi qui), sembrano “più orientati a concedere qualcosa al rinascente movimento sindacale, mentre Trump e i repubblicani hanno un’agenda tutta centrata sulla difesa dei proprietari”. Quindi, sotto questo aspetto, l’attuale vicepresidente sembra decisamente preferibile al tycoon. Naturalmente, rimane sempre aperto il problema di come il consenso per quest’ultimo continui a rimanere notevole anche presso la classe operaia, o quel che ne resta: la spiegazione più semplice, ma finora non contraddetta, è che i democratici sono ormai percepiti da tale classe come il partito delle élite dominanti. Secondo molti analisti, questo è stato il motivo per cui nel 2016 Hilary Clinton ha perso negli “Stati oscillanti” con una forte componente di popolazione operaia; vedremo se succederà la stessa cosa a Kamala Harris.
Per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, è superfluo ribadire che esso non vale solo per i cittadini di un determinato Stato, ma per tutti gli esseri umani. Tutti sono uguali, indipendentemente dalla religione che professano (o che non professano), dalle idee politiche che prediligono, dalla “razza” (perché avere paura di questa parola se non si è razzisti?) a cui appartengono. Dunque, nel caso dei due candidati presidenziali, non ci si deve preoccupare soltanto dell’attenzione che riservano (o che non riservano) ai diritti dei loro concittadini, ma anche del loro comportamento nei confronti dei cittadini di altri Paesi che, per una ragione o per un’altra, hanno a che fare con gli Usa. Data l’importanza mondiale degli Stati Uniti, è ragionevole sostenere che non si tratta di “altri Paesi”, ma di tutti i Paesi del mondo. Nella situazione attuale, alcune popolazioni sono particolarmente esposte alle conseguenze della politica che il prossimo presidente americano adotterà: da un lato, tutti i latino-americani che cercano di immigrare negli Stati Uniti; dall’altro, i palestinesi. Cosa possiamo aspettarci, in questi due casi particolari (che naturalmente non devono escludere l’attenzione per molti altri) da Harris da un lato e da Trump dall’altro?
Sotto il primo aspetto, le politiche dei due candidati non sembrano essere molto diverse, a parte alcune battute colorite (per così dire) di Trump nei confronti degli immigrati, come quella che li dipinge come mangiatori di cani e gatti. Anche Harris, tuttavia, ha rilasciato nel corso degli anni della sua vicepresidenza varie dichiarazioni tutt’altro che favorevoli all’accoglienza degli immigrati dall’America latina. Per quanto riguarda la questione palestinese, Trump si è sempre dimostrato un sostenitore incondizionato della politica israeliana; ma anche Harris, come del resto Biden, pur elevando qualche timida protesta nei confronti degli eccessi (chiamiamoli così) del governo Netanyahu a Gaza, continua però di fatto a sostenerlo, non interrompendo la fornitura di armi a Israele, e neppure minacciando di farlo. Quindi, anche in questo caso, la differenza tra i due candidati è sostanzialmente di facciata. Diverso è invece il loro atteggiamento sul piano interno, con Harris decisamente schierata a favore dei diritti delle donne, in primo luogo l’aborto, diritti che al contrario Trump minaccia chiaramente di calpestare.
Per quanto riguarda il problema della pace nel mondo, quali sono le posizioni dei due candidati relativamente ai due scenari che, attualmente, la minacciano più da vicino, cioè il conflitto in Medio Oriente e quello tra Russia e Ucraina? Relativamente al primo, come si è detto, le differenze sono di facciata, e dunque, almeno allo stato attuale, entrambi non sembrano affatto operare per un allentamento della tensione. Sul conflitto russo-ucraino, invece, le posizioni sembrano molto distanti: mentre Harris non si distacca dalla politica di Biden, che di fatto appoggia una prosecuzione della guerra, Trump ha più volte affermato, com’è noto, di poter risolvere il problema in ventiquattr’ore. Anche in questo caso, però, si direbbe che Emiliano Brancaccio abbia ragione, nell’intervista già citata, quando valuta la pretesa agenda “pacifista” di Trump “una linea retta verso l’escalation militare globale”.
In conclusione: Kamala Harris è decisamente preferibile a Donald Trump solo sotto un aspetto tra quelli che abbiamo esaminato, ossia la difesa dei diritti delle donne. Quindi, chi è sinceramente di sinistra quale esito delle elezioni di martedì prossimo dovrebbe augurarsi? Forse una vittoria di Harris, perché i diritti anche di un solo gruppo di persone sono comunque fondamentali, ma senza alcuna illusione che tale vittoria possa cambiare qualcosa per la difesa dei diritti di tanti altri, come pure del diritto dell’umanità a vivere in pace.