Il diluvio di lapidari commenti e verbose sentenze a mezzo stampa sul voto ligure lascia qualche spiraglio all’approfondimento sui dettagli concreti della cronaca elettorale. Dettagli che sono i numeri: quelli depositati dagli elettori nell’urna e quelli formati dai non elettori in quella sorta di mega-urna che è diventata il bacino dell’astensione nell’era da qualche studioso, non senza buone argomentazioni, definita della postdemocrazia.
Alla crescita inarrestabile del rifiuto del voto ci si è ormai rassegnati: i politici più accorti vi dedicano sempre una frase di circostanza, un po’ come quando si va a fare le condoglianze a dei lontani parenti per la morte di uno zio lungamente ignorato in vita. Tuttavia, la prima osservazione andrebbe invece fatta proprio sul dato dell’astensione: il 45,97% di affluenza dovrebbe dire qualcosa, oltre che sulla tendenza apparentemente inarrestabile alla separazione fra governanti e governati, anche sull’offerta elettorale che si presentava sulla scheda. Si tratta di un calo del 7% circa rispetto alle precedenti regionali, ma anche del 4 e mezzo abbondante rispetto alle recentissime elezioni europee. A dispetto di quanti predicano la presunta e indimostrabile popolarità dei sistemi istituzionali ed elettorali basati sulla polarizzazione e la personalizzazione del confronto, la Liguria conferma un dato innegabile: l’ubriacatura maggioritaria e plebiscitaria allontana gli elettori dalla democrazia. Eppure il suo punto di arrivo estremo, cioè la riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio (il cosiddetto premierato) continua indisturbata il suo percorso parlamentare.
A margine di questo ragionamento, si può sollevare un interrogativo: siamo proprio sicuri che gli oltre ventimila liguri che hanno scelto candidati e liste minori, nessuna delle quali ha raggiunto l’1% dei consensi (e che sommati sono pari a quasi il 4% dei voti validi, anche senza contare più di quattromila schede bianche), non debbano essere, quantomeno nell’analisi politica, assimilati in qualche modo a quella vasta area del rifiuto del voto rappresentata dall’astensione? Si tratta pur sempre di un distacco consapevole, di una protesta contro il sistema bipolare e la sua violenta torsione antipluralistica, di un rifiuto dell’offerta politica delle coalizioni principali, le uniche realmente in gioco in questo sistema. Seguendo questa ipotesi di lavoro, dovremmo ragionare in modo ancora più netto di una “democrazia di minoranza”, il cui destino ci dovrebbe preoccupare un po’ più della dipartita del già citato vecchio zio.
Quanto all’offerta politica, un paio di dati sui due candidati che si sono fronteggiati. Il sindaco di Genova, Marco Bucci, è stato eletto presidente regionale, è vero, ma anche pesantemente sconfitto proprio nella sua città, dove il rivale Andrea Orlando lo ha sopravanzato di oltre diciottomila voti. Dall’altro lato, il candidato del centrosinistra, parlamentare di lungo corso e più volte ministro, figura di peso nazionale (peraltro senza le ombre che in passato hanno appesantito altre figure del centrosinistra ligure) avrebbe dovuto rappresentare il valore aggiunto dell’alleanza. Invece ha faticato proprio sul terreno dei consensi personali: infatti, mentre Bucci, a livello regionale, ha raccolto diciannovemila voti in più di quelli che risultano dalla somma delle liste della sua coalizione, Orlando ne ha racimolati solo tredicimila in più rispetto alle sue liste. Ennesima dimostrazione del fatto che, nell’elettorato residuo che ancora si reca alle urne, la corretta individuazione della personalità da candidare pesa non meno delle diatribe nazionali (scontri Conte-Grillo, crisi del campo largo, veti sui centristi o flirt fuori tempo massimo con i loro leader). Queste ultime vicende sono quelle che hanno ricevuto la maggiore attenzione dalla politica e dalla stampa nazionale: dunque non torneremo sulle più pubblicizzate indicazioni del voto (il trasloco di voti renziani e calendiani verso il centrodestra, certificato dallo studio dell’Istituto Cattaneo sui flussi elettorali, la crisi verticale del Movimento 5 Stelle, il buon risultato del Pd) se non per leggere un po’ più nel dettaglio cosa dicono i numeri del presente e del passato, in particolare nell’area alternativa alle destre di governo.
Il Partito democratico ha raccolto 160mila voti, superando il 28%, e ha un potenziale espansivo, dal momento che certamente anche la lista civica “Orlando presidente”, con il 5,3%, ha in parte pescato nel suo elettorato. Il risultato quindi è abbastanza in linea con quello delle recenti elezioni europee, dove la civica non c’era, e al Pd sono andati 185.260 voti, pari a circa il 25%. Sulle politiche del 2022 il partito, passato alla segreteria di Elly Schlein, ha guadagnato un 6% netto, di fatto senza pagare dazio al non voto. Ma ha fatto soprattutto un balzo in avanti ragguardevole rispetto alle regionali del 2020, quando i dem si erano fermati poco sotto il 20%, con 124.586 voti.
Alleanza verdi-sinistra, il cartello elettorale creato da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli in funzione anti-sbarramento elettorale, si consolida e si propone come una gamba stabile dell’ipotetica alleanza di centrosinistra. Porta a casa un robusto 6,17%, ma soprattutto, in numeri assoluti, quasi trentacinquemila voti: erano 31.850 due anni fa, alle politiche, ma, dato che l’affluenza era molto più alta, valevano a fatica il superamento della soglia del 4%. Resta degno di nota il fatto che l’elettorato di Avs non ha sofferto in alcun modo dell’astensione, anzi, fisicamente sono andati a depositare la croce sul suo simbolo tremila elettori in più.
Il Movimento 5 stelle è il grande malato della coalizione, come un tempo si diceva degli imperi continentali in via di dissoluzione. Questa la sequenza delle ultime tornate elettorali in Liguria per l’organizzazione oggi guidata da Giuseppe Conte: regionali 2020, 48.722 pari al 7,78%; politiche 2022 (Camera dei deputati), 93.413 voti, il 12,73%; europee 2024, 63.727, il 10,19%; regionali 2024, 25.670 pari al 4,56%. Per i 5 Stelle si verifica quindi un esito opposto rispetto a quello visto riguardo all’Alleanza verdi-sinistra: non solo per la drammatica erosione dei consensi elettorali, ma perché questo risultato mette in discussione la linea politica fin qui seguita da Conte (e contestata, con motivazioni politiche non sempre limpide, da Beppe Grillo e dai suoi residui seguaci): scelta stabile del campo progressista, ricorrenti conflitti con il partito principale della coalizione. In Liguria, al centrosinistra è mancato veramente poco per vincere; ma se Emilia-Romagna e Umbria confermassero il rifiuto di una fetta così rilevante dell’elettorato 5 Stelle di confluire in modo permanente nel centrosinistra, non sarebbe solo Conte a dover ricominciare da capo per stabilire il posizionamento del Movimento. Anche la coalizione che il Pd ambisce a stabilizzare rischia di dover ricominciare da capo, senza una gamba, paradossalmente quella che con la candidatura di Alessandra Todde in Sardegna ha garantito l’unica vittoria nelle ultime undici consultazioni regionali.
Sarà possibile sostituirla con una nuova aggregazione centrista? Chi dovrebbe guidarla, visti i conflitti tra Renzi, Calenda e Bonino, che hanno disperso anche quell’area? I numeri, e la politica, parlano di una stagione che si annuncia molto turbolenta per le forze che aspirano a sconfiggere le destre alle prossime (alquanto lontane) elezioni politiche.