Scarsamente coperto dai media nostrani, il meeting delle Nazioni Unite Cop16 sulla biodiversità, inaugurato lunedì 28 ottobre a Cali, in Colombia, ha concluso i suoi lavori. Cop16 è stato preceduto da una lunga serie di incontri cominciati nel 1992, che avevano portato in quella sede alla definizione del trattato internazionale noto come “Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica”, adottato e ratificato da 196 Paesi, ossia da tutti i membri dell’Onu meno gli Stati Uniti. Dall’ultimo degli incontri, Cop15, tenutosi in Canada, a Montreal nel dicembre 2022, era scaturito un documento d’intenti estremamente ambizioso: il Global Biodiversity Framework (Gbf), un piano fondamentale per arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030.
Il documento di Montreal era chiaro nelle sue linee programmatiche. Insisteva sulla regola del 30. L’obiettivo del raggiungimento del 30×30 va considerato uno dei più importanti dei ventitré presenti nel Gbf. Prevede che il 30% della superficie terrestre, sia marina sia terrestre, debba essere protetta entro il 2030 perché le riserve naturali, se ben gestite, sono un modo particolarmente efficace per arrestare la perdita di biodiversità. Altri obiettivi includono il ripristino del 30% dei terreni degradati e la riduzione della metà della diffusione delle specie invasive. Le riserve naturali aiutano a proteggere gli ecosistemi e a conservare le specie. L’idea è che le popolazioni animali possono riprendersi se vengono lasciate in pace, limitando per esempio pesca intensiva e caccia.
Come sempre avviene in questi casi, gli obiettivi di Montreal sono tradotti in strategie e piani di azione nazionali per la biodiversità dai singoli Stati firmatari. Il modo in cui i Paesi attuano le misure dipende solo da loro, e non sono previste sanzioni se un Paese non raggiunge i suoi obiettivi. Gli sviluppi vengono discussi sulla base dei rapporti nazionali. Gli Stati firmatari devono presentarli almeno ogni cinque anni. Tuttavia, nonostante l’importanza della partita in gioco, la formulazione vaga degli obiettivi e la mancanza di misure di attuazione rendono spesso impossibile misurare gli eventuali progressi, e finora, a due anni dalla Cop15, solo il 20% dei Paesi ha presentato un piano nazionale.
Alla conferenza di Cali, il cui motto era “Pace con la natura” hanno partecipato i 196 Stati contraenti della Convenzione sulla diversità biologica, gli Stati Uniti solo in qualità di “osservatori”. Sul posto, anche rappresentanti del mondo economico, scientifico e della società civile, organizzazioni non governative (Ong), nonché popolazioni indigene e comunità locali, tra le prime a essere colpite dalla perdita di biodiversità, che costituisce in ogni caso una minaccia per la sopravvivenza dell’intero genere umano, dato che la diversità biologica è una misura dell’abbondanza di forme di vita diverse in un particolare habitat.
Ne esistono tre livelli: diversità delle specie, diversità all’interno delle specie, e diversità degli ecosistemi. Tutte e tre le categorie sono attualmente in drastico e brusco calo. Recenti rapporti di ricerca lanciano un vero e proprio allarme, denunciando che, negli ultimi cinquant’anni, la popolazione di animali selvatici – cioè il numero complessivo di esemplari allo stato libero – si è ridotta del 73%, e questa è solo una delle spie di una situazione drammatica. Tuttavia, la vecchia idea della conservazione della natura come “fortezza”, in cui le riserve naturali sono isolate dal mondo esterno, è ormai considerata superata. Oggi è chiaro che la conservazione della natura può funzionare solo con il coinvolgimento delle comunità locali, in particolare delle popolazioni indigene, non contro di loro. Altrimenti ci saranno inevitabilmente forme di conflitto, bracconaggio e scarsa osservazione delle misure introdotte.
L’Onu stima che gli investimenti necessari per la salvaguardia e la conservazione della natura ammontino a settecento miliardi di dollari all’anno, di cui attualmente ne vengono raccolti solo circa centoventi. Il Global Biodiversity Framework Fund, fondato a Montreal, è ancora significativamente sotto finanziato. Come colmare queste lacune e quale ruolo possa svolgere il settore privato è stato un argomento importante nel dibattito a Cali. Perché una cosa è chiara: la conservazione della natura costa denaro. Sulla questione è tornato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, nella cerimonia di apertura, che ha affermato: “Il quadro che abbiamo di fronte si basa su una chiara verità: affinché l’umanità sopravviva, la natura deve prosperare (…), occorre ripristinare le relazioni con la Terra e i suoi ecosistemi (…). Abbiamo un piano per salvare l’umanità da una Terra degradata”. Guterres ha sottolineato che le delegazioni presenti a Cali avrebbero dovuto decidere investimenti significativi nel Gbf, nei fondi a esso correlati, lasciando la conferenza con l’impegno a mobilitare altre fonti di finanziamento pubbliche e private per raggiungere gli obiettivi auspicati.
Il problema però, come si è visto già nel caso delle Cop sul global warming, è la divisione tra Paesi ricchi e poveri, sul modo di contribuire economicamente ai fondi: i Paesi occidentali propongono strumenti finanziari avanzati per sostenere le azioni di conservazione, mentre quelli in via di sviluppo richiedono risorse immediate, anche per via delle loro vulnerabilità. In questo contesto, i Paesi mega-diversi – come Brasile, Congo e Indonesia, che possiedono le più vaste aree di biodiversità – desiderano una maggiore influenza sulla gestione dei fondi e minori restrizioni sui progetti. Secondo il negoziatore brasiliano André Corrêa do Lago, il finanziamento per la biodiversità dovrebbe rispecchiare il peso delle risorse naturali dei Paesi beneficiari.
Un impulso alla conferenza ha cercato di darlo la ministra colombiana dell’Ambiente, e presidente della Cop16, Susana Muhamad, che nel suo bel discorso inaugurale ha sottolineato come la Colombia sia diventata “l’epicentro dell’azione globale per il clima, unendo leader ed esperti per affrontare la più grande sfida della nostra era: proteggere il nostro pianeta e garantire un futuro sostenibile”. Con accenti drammatici, la ministra ha aggiunto che occorre capire che “se salvaguardiamo tutte le forme di vita, stiamo salvaguardando noi stessi, erigiamo un principio di pace con la natura, il che significa anche ricerca della pace”, e ha aggiunto che ci troviamo “in un momento buio, in un momento in cui quello che vediamo è che la via d’uscita non è attraverso la politica, la via d’uscita è attraverso la guerra, è mettendo fine all’altro, escludendo l’altro (…), mentre sta passando tempo prezioso per questa transizione, e le risorse che per la guerra si trovano rapidamente, per la cura della vita, della biodiversità, della transizione climatica, sono scarse e difficili da ottenere…”. E Muhamad ha insistito sul fatto che occorre costruire a partire dall’eredità di Montreal, che occorre fare un passo avanti ulteriore. Non si tratta solo di meccanismi di attuazione, ma “fondamentalmente di ricomporre il nostro modo di vivere, ricomporre il modello di sviluppo, ricomporre, ripensare, riscoprire come conviviamo nella diversità”. Al di là dell’accorato e intelligente appello della ministra colombiana, va ricordato che, tra gli altri impegni presi a Montreal, c’era anche l’equa condivisione dei profitti ottenuti grazie alla commercializzazione delle informazioni genetiche delle specie viventi, che, se realmente attuata, potrebbe implementare un sistema in grado di raccogliere almeno una parte dei duecento miliardi di dollari che servirebbero ogni anno per finanziare le attività di conservazione.
Già nei primi giorni della conferenza non sono mancate critiche alla Global Environmental Facility, la struttura incaricata di gestire il Global Biodiversity Framework Fund, accusata di avere una governance sbilanciata a favore dei Paesi ricchi e di rendere complesso l’accesso ai fondi per i Paesi in via di sviluppo. Ma le tensioni nate nel corso di una discussione che si è andata facendo sempre più aspra hanno raggiunto livelli tragicomici nella chiusura, inutilmente protratta fino a sabato: la riunione è stata bruscamente interrotta perché, nonostante i punti all’ordine del giorno in sospeso, non c’erano più abbastanza delegati sul posto; la conferenza si è così conclusa senza un accordo sulla questione centrale del finanziamento della protezione delle specie.
Ha affermato Florian Titze del Wwf: “L’obiettivo di fermare e addirittura invertire la distruzione della natura entro il 2030 rimane ancora molto lontano”, e di un fine conferenza “imbarazzante” parla lo stesso comunicato ufficiale dell’organizzazione. Oggetto del contendere, come prevedibile, i quattrini: Susana Muhamad ha rinnovato la proposta di un fondo per la biodiversità, che avrebbe dovuto dare ai Paesi in via di sviluppo più voce in capitolo nella distribuzione del denaro. La proposta è stata però respinta dai Paesi ricchi, tra cui Unione europea, Svizzera e Giappone. Il blocco del fondo per la biodiversità ha perciò approfondito le fratture tra i Paesi industrializzati e quelli del Sud del mondo, lasciando l’amaro in bocca, con una nota di crescente perdita di fiducia.
Tra i pochi aspetti positivi di Cali, un passo avanti nella protezione delle aree marine ricche di specie e una maggiore partecipazione delle popolazioni indigene e delle comunità locali. I delegati hanno concordato di istituire un comitato, che includa le popolazioni indigene e le loro conoscenze tradizionali nelle future discussioni e decisioni sulla conservazione della natura. I delegati hanno inoltre convenuto che le industrie farmaceutiche e cosmetiche, che utilizzano dati genetici di piante e animali dei Paesi in via di sviluppo, dovrebbero dare un contributo maggiore. In futuro, le aziende dovrebbero versare lo 0,1% del loro fatturato o l’1% dei loro profitti in un fondo che serve a preservare la biodiversità. Ma siamo all’ultima chiamata: se neppure questi accordi dovessero produrre risultati tangibili, le ripercussioni per la biodiversità globale potrebbero essere gravissime.