Tutti negli Stati Uniti (e nel resto del mondo) aspettano di conoscere i risultati delle elezioni presidenziali di martedì prossimo. Beh, non proprio tutti: tra gli interessati ai risultati non figurano probabilmente i circa cinquanta-sessanta milioni di cittadini che, sulla base dell’affluenza alle urne delle passate tornate elettorali, non andranno a votare, nonostante il martellamento di spot elettorali e di comizi delle ultime settimane da parte di entrambi i candidati.
La volta scorsa, nel 2020, i votanti furono 158 milioni circa (67% degli aventi diritto); questa volta saranno probabilmente di più a causa dell’incremento della popolazione (che negli Stati Uniti cresce di dieci-quindici milioni ogni quattro anni). Alle urne, però, andrà un numero molto inferiore di elettori. Alla data del 30 ottobre, 55 milioni avevano già votato o di persona, come molti Stati consentono, oppure inviando il loro voto per posta, non solo – com’è naturale – i cittadini e i militari residenti all’estero, ma anche molti che preferiscono votare in questo modo piuttosto che perdere un giorno di lavoro (il martedì, giorno fissato dalla Costituzione) per fare lunghe file ai seggi.
Se i dati delle precedenti elezioni presidenziali saranno confermati, alle urne il giorno delle elezioni andrà poco più di un terzo degli aventi diritto. Quelle furono elezioni influenzate dalle restrizioni del Covid, e quindi quest’anno la percentuale potrebbe essere più alta, sempre però inferiore alla metà dei votanti, dal momento che rispetto al passato sono molto cresciute le richieste di voto per posta, che quasi tutti gli Stati consentono senza giustificazione. Inoltre, mentre in passato la maggior parte dei repubblicani era contraria al voto per corrispondenza (solo il 32% lo fece nel 2020 rispetto al 55% dei democratici) e Trump sosteneva che era spesso frutto di frodi elettorali, quest’anno il partito repubblicano e lo stesso Trump hanno incoraggiato i propri elettori a votare per posta.
Il 5 novembre, dunque, non tutti ma una buona parte degli americani andranno a votare. Non aspettatevi però – a meno di straordinari rivolgimenti rispetto alle previsioni – di conoscere i risultati quella sera stessa (alle prime luci dell’alba in Europa) e neppure nei giorni successivi. I sondaggi delle ultime ore dicono che i due candidati sono praticamente appaiati a livello nazionale. Un mese fa Harris aveva un vantaggio di due-tre punti su Trump, ma per motivi misteriosi, che neppure gli analisti più raffinati hanno saputo decifrare, in queste ultime settimane l’entusiasmo provocato dalla “novità” della sua candidatura è diminuito, e ora Trump sarebbe alla pari con lei o addirittura la supererebbe. Altrettanto misteriose sono le cause del correlato aumento di consensi a favore del tycoon, il quale, nelle ultime settimane e giorni, non solo ha aumentato la virulenza e la volgarità dei suoi attacchi personali nei confronti di Harris, ma ha ripreso a insultare quelle fasce di elettori – neri e ispanici – che aveva corteggiato, e tra i quali aveva aumentato i propri consensi (ancorché sempre minoritari rispetto ai democratici).
Questo a livello nazionale. Ma, com’è noto, le elezioni per il presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette, sono elezioni di secondo grado. Gli elettori scelgono un certo numero di delegati (“grandi elettori”) in ciascuno Stato, con il metodo maggioritario: il candidato che prende un voto in più riceve tutti i delegati di quello Stato. Il sistema, che i “Padri fondatori” della nuova Repubblica avevano ideato proprio per esercitare un freno sulla volontà popolare (che consideravano poco affidabile e “pericolosa”), è fortemente squilibrato a vantaggio dei piccoli Stati, che hanno un numero di grandi elettori sproporzionato rispetto alla popolazione. Così può capitare (è successo varie volte, da ultimo proprio con l’elezione di Trump) che un candidato ottenga la maggioranza dei grandi elettori, e venga eletto presidente pur avendo ottenuto meno voti popolari del suo avversario.
Il sistema ha un effetto distorsivo anche sulla stessa campagna elettorale. Poiché in ogni Stato chi prende più voti ottiene tutti i delegati dello Stato, negli Stati nei quali c’è una solida maggioranza di un partito, il partito avverso ritiene inutile fare campagna elettorale, a parte qualche comizio e spot elettorale. Questo vale sia per gli Stati “rossi” (repubblicani) come il Texas o la Florida o il Wyoming, sia per gli Stati “blu” (democratici) come New York, la California, il Delaware. Ci si concentra su quella manciata di Stati dove la differenza tra un partito e l’altro è minima, in cui una parte degli elettori passa da un partito all’altro a ogni elezione, e che quindi possono essere conquistati. Per questo vengono chiamati “Stati oscillanti” (swing States) o anche “Stati campo di battaglia” (battleground States), ed è in questi pochi che viene spesa la maggior parte delle (enormi) risorse economiche e delle (scarse) risorse di tempo dei candidati, che vi si affannano con centinaia di comizi e incontri con i cittadini, mentre migliaia di “volontari” (comunque pagati) fanno il porta a porta per convincere gli elettori, in primo luogo a votare, e poi a votare per il proprio candidato.
Gli swing States tendono a essere sempre gli stessi, con qualche variazione nel corso del tempo (nel 2000 per esempio la Florida lo era, ma poi è diventata uno Stato solidamente repubblicano). Sondaggisti e analisti politici considerano che su 538 grandi elettori (la maggioranza richiesta è 270) almeno 440 appartengono a Stati “sicuri”, e sono di fatto già assegnati in partenza: metà andranno sicuramente a Trump, metà a Harris. Rimane circa un centinaio di grandi elettori divisi tra i sette attuali swing States, tre al sud (i sun-belt States, “la cintura del sole”): Arizona, Georgia, Carolina del Nord; tre al nord (il blue wall, “il muro blu”): Michigan, Wisconsin, Pennsylvania; e uno nel mezzo, il Nevada. In quelli del nord Harris ha un leggero vantaggio, in quelli del sud ce l’ha Trump; ma in ognuno di questi Stati basterebbero poche migliaia o decine di migliaia di voti per rovesciare la situazione. Si potrebbe addirittura arrivare alla parità di 269 grandi elettori per ciascun candidato, nel qual caso la scelta del presidente passerebbe alla nuova Camera dei rappresentanti (che viene eletta in contemporanea), con una procedura così complessa che neppure i più raffinati costituzionalisti si azzardano a fare previsioni su cosa potrebbe succedere.
Ma, in definitiva, quando conosceremo il risultato delle elezioni? Intanto va detto che il risultato ufficiale viene comunicato dagli Stati solo alcune settimane dopo il voto; la sera delle elezioni sono tradizionalmente le principali reti televisive a dichiarare questo o quel candidato vincente, in base all’andamento dello scrutinio. E qui nasce il primo problema. Le prime a essere scrutinate sono le schede votate ai seggi, e queste di solito favoriscono i repubblicani che, almeno in passato, tendevano a votare di persona. Via via però che il giorno dopo e nei giorni successivi vengono scrutinate le schede giunte per posta, poiché sono i democratici a usare prevalentemente questo metodo di voto, è probabile che la situazione si rovesci, e che siano loro a passare in vantaggio.
Ora, la procedura di esame dei voti per posta, che richiede vari controlli di autenticità e di corrispondenza con le liste elettorali, e con la firma depositata dall’elettore, è piuttosto laboriosa e costituisce un primo fattore di ritardo; un secondo fattore è legato al fatto che – proprio in alcuni dei cruciali swing States – i voti per corrispondenza vengono considerati validi, purché timbrati entro il giorno delle elezioni, anche se pervengono ai seggi fino a una settimana dopo. Non parliamo di pochi voti, ma di circa il 30% del totale; finché tutti questi non saranno scrutinati non sarà possibile sapere chi ha vinto, e comunque non prima di diversi giorni dopo il 5 novembre. (Queste considerazioni si applicano anche a tutte le altre elezioni che si tengono in contemporanea con quelle presidenziali: le elezioni per il Congresso, quelle per i parlamenti degli Stati, per i governatori e per molte altre cariche individuali – tesorieri di contea, sceriffi, procuratori, ecc. –, tutte estremamente importanti nel determinare l’assetto complessivo dei poteri e l’effettiva capacità di governo del presidente.)
Questo nella migliore delle ipotesi, cioè se non interverranno altri fattori di ritardo: per esempio, le contestazioni legali sulla validità di questo o quel voto, o addirittura sulle procedure messe in atto dai singoli Stati, per le quali stuoli di avvocati di entrambi i partiti stanno già affilando le armi di difesa e di offesa. Se poi, a scrutinio terminato, in uno o più degli swing States, il margine di vittoria dovesse risultare inferiore a mezzo punto percentuale, il candidato perdente può chiedere la riconta manuale di tutte le schede: il che porterebbe l’intera procedura a ridosso della scadenza dell’11 dicembre, data in cui per legge i singoli Stati devono rendere ufficiali i risultati definitivi.
Qualcuno ancora ricorda cosa successe nelle elezioni del 2000, in cui il candidato democratico Al Gore chiese la riconta dei voti in Florida. La procedura si trascinò per giorni, tra azioni legali di ogni tipo, finché non intervenne la Corte suprema che, con una decisione a maggioranza, bloccò la riconta e dette la vittoria a George W. Bush. Questa volta una corte – ancora più solidamente filo-repubblicana – non avrebbe esitazioni nel consegnare la presidenza a Donald Trump.
Naturalmente, nel clima di virulenta contrapposizione politica oggi prevalente negli Stati Uniti, c’è sempre la possibilità, o la probabilità, che ove Trump risultasse perdente (e sarebbe comunque di poco) si rifiuti di accettare il risultato; e, come fece la volta scorsa, lanci una campagna di contestazioni e di accuse di brogli, scatenando infine la massa più facinorosa dei suoi sostenitori, con manifestazioni di piazza che potrebbero continuare e inasprirsi fino e oltre la proclamazione del nuovo presidente da parte del Congresso, il 6 gennaio 2025. Una prospettiva così allarmante che ci sarebbe quasi da augurarsi che vinca Trump.