Si potrebbe discorrere di Berlinguer – la grande ambizione di Andrea Segre, da critici cinematografici, come di un film senza infamia e senza lode, firmato da un regista che è soprattutto un documentarista. Privo di qualsiasi particolare aperçu, piatto nella sceneggiatura, sempre addosso al suo personaggio (peraltro molto bene interpretato da Elio Germano), è però comunque da vedere perché in esso la parola “socialismo”, con tutto ciò che significa – un mondo basato sull’eguaglianza, e non sulla competizione ma sulla cooperazione tra gli individui–, non è un tabù. Di questi tempi è qualcosa. E in effetti Berlinguer fu uno che in una prospettiva socialista per l’Italia aveva creduto: solo che i mezzi per realizzarla, in quel contesto, non c’erano. Nel film compare l’inserto di una breve intervista in inglese all’autentico Gianni Agnelli che ribadisce, com’è ovvio, il suo protervo “no” a quella ipotesi.
Per dirla brutalmente, Berlinguer avrebbe dovuto, già dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, portare il partito fuori dall’orbita sovietica, cambiarne il nome, sopportare una scissione che ci sarebbe sicuramente stata, chiedere di entrare nell’Internazionale socialista evitando così, forse, anche l’autodistruzione del Psi, che cominciò con la segreteria di Craxi (di cui non c’è traccia nel film), in larga misura una conseguenza della presenza di un forte Partito comunista alla sua sinistra, accettando di fatto quella socialdemocratizzazione del Pci in atto da tempo, e insomma chiudendo lui una storia cominciata con la scissione di Livorno e finita in modo inglorioso con gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni (quest’ultimo a sua volta autore di un film su Berlinguer molto peggiore di quello di Segre). Ma era troppo per un uomo solo. Il lato positivo del lavoro di Segre è fare di Berlinguer proprio quello che fu: una figura tragica.
Il film si apre sull’attentato (quasi sicuramente si trattò di questo) subìto dal segretario comunista durante una visita in Bulgaria, nel 1973. Nel Paese più pedissequamente allineato a Mosca, è del tutto verosimile che si tentasse di far fuori il maggiore esponente dell’“eurocomunismo”, cioè di una linea “revisionista” di avanzamento verso il socialismo nella libertà e nella democrazia. Ma Berlinguer scelse di non drammatizzare, per salvaguardare l’unità del partito e il culto che la sua base tributava ancora ai Paesi dell’Est.
Sono letti da Germano, fuori campo, passi rilevanti dei due famosi articoli su “Rinascita” (1973) che il segretario comunista dedicò al golpe cileno, quelli in cui per la prima volta è avanzata la proposta del “compromesso storico” (nemmeno con il 51% si governa, è necessaria un’alleanza più ampia delle forze popolari: ma qui Berlinguer omise di dire che quello di Allende, in Cile, era un governo di minoranza, che non ebbe mai il 51% dei voti). Così l’alleanza con i cattolici – che significava poi con la Democrazia cristiana – sarebbe stato il nerbo di una strategia che avrebbe dovuto portare il Paese non solo fuori dalla crisi (l’inflazione, le minacce di colpo di Stato, e perfino un terrorismo di sinistra che nessuno aveva messo nel conto), ma anche a delle riforme di fondo – quelle per le quali già il Psi si era impegnato, nei primi anni Sessanta, durante il suo periodo iniziale di collaborazione con la Dc, e che si erano risolte nella sua completa subalternità in virtù della solita minaccia autoritaria (proveniente allora addirittura dal presidente della Repubblica, Antonio Segni).
Come il seguito della storia dimostrò – e il film affronta questo nodo dal punto di vista del segretario del Pci, ossessionato dal timore che lui stesso potesse essere rapito finendo, come Moro, col volere trattare con i rapitori – non più la minaccia di un colpo di Stato, ma proprio l’eliminazione fisica del presidente della Dc intervenne a togliere di mezzo, nel 1978, qualsiasi ipotesi di riforma del Paese. Non si sarebbe trattato di una transizione né di introdurre “elementi di socialismo” (espressione berlingueriana che nel film non viene ripresa), ma semplicemente dell’apertura di un sistema politico. L’Italia si trascinerà così fino a Tangentopoli, e, di passaggio in passaggio, fino a quel berlusconismo postfascista o postfascismo berlusconiano che abbiamo sotto gli occhi.
Di Berlinguer infine cosa dire? Fu una specie di “italo Amleto”, né filosovietico né collocabile nel socialismo europeo. Di certo, però, non fu aiutato dalla situazione internazionale, che era quella della guerra fredda. E a veder bene neppure da una particolare sagacia nella scelta delle parole d’ordine: basti pensare che quell’“alternativa democratica”, che propose dopo l’impasse in cui era finito il breve periodo di collaborazione con la Dc, andava probabilmente lanciata prima, a metà dei Settanta, quando il Pci raggiungeva quasi il 35% dei consensi; e l’altra, quella del “compromesso” storico o non storico che a quel punto sarebbe stato, quando invece i voti avevano cominciato a calare.