Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’Università Federico II di Napoli e promotore dell’appello su “Le condizioni economiche per la pace”, pubblicato dal “Financial Times” e “Le Monde” (autore dell’omonimo libro uscito quest’anno per i tipi di Mimesis), conduce da tempo una battaglia per aggiornare le analisi politiche internazionali utilizzando strumenti teorici critici all’altezza delle grandi trasformazioni in corso. Lo abbiamo intervistato per approfondire il tema centrale delle ragioni dei conflitti armati.
Professor Brancaccio, le guerre non si fermano. Anzi sembrano preludere a una escalation dalle conseguenze imprevedibili. Uno scenario inevitabile?
Uno scenario forgiato da forze profonde, che le analisi alla moda colpevolmente trascurano. Mi riferisco alle determinanti “economiche”, o più precisamente “materiali”, dei conflitti militari. Se ne parla poco, ma gli interessi “materiali” rappresentano un fattore chiave di attivazione dei conflitti militari.
Vale anche per il conflitto israelo-palestinese?
L’attacco di Hamas in territorio d’Israele e i massacri di palestinesi a opera dell’esercito israeliano, sia prima sia dopo il 7 ottobre, vengono solitamente considerati un tipo di guerra completamente estranea alle controversie economiche. I commentatori mainstream ritengono che lì la controversia sia semplicemente di natura etnica, religiosa, culturale o, al limite, territoriale. Si sbagliano.
In effetti, nel conflitto Israele-Palestina l’elemento terra è stato da sempre storicamente centrale…
Il fattore territoriale è certamente rilevante, anche per ragioni di pressione demografica. Diversamente da quel che avviene in Italia o in buona parte dell’Occidente, Israele e la Palestina hanno entrambi tassi di crescita della popolazione tuttora importanti. Questo elemento esercita una pressione fortissima su un territorio molto limitato. Tuttavia, la spiegazione “territoriale” da sola non basta per comprendere il quadro attuale. Esistono anche altri fattori di conflitto, ancora più rilevanti.
Quali altre ragioni della guerra sarebbero in campo?
Per capire di che parliamo dobbiamo partire da lontano e inquadrare tutte le guerre, incluso il conflitto israelo-palestinese, nell’attuale scenario di divergenza economica tra le grandi potenze. L’elemento chiave, in questo scenario, è la grande svolta di politica economica degli Stati Uniti verso il protezionismo. Dopo essere stati gli apologeti della globalizzazione capitalistica e dell’apertura dei mercati al libero commercio e alla libera finanza mondiale, a un certo punto gli Usa si sono resi conto che il processo di globalizzazione non stava facendo bene al capitalismo americano. Anzi, stava aprendo la via a una possibile crisi egemonica dell’economia americana.
Un’America che si pente della globalizzazione?
Lo possiamo notare guardando vari indicatori che evidenziano alcune difficoltà crescenti per l’economia americana. Uno di questi indicatori è l’indebitamento degli Stati Uniti verso l’estero. La cosiddetta “posizione netta verso l’estero” degli Stati Uniti (in economia è la differenza tra le attività e le passività finanziarie esterne di un Paese, ndr) va verso un passivo di ventimila miliardi di dollari. È un record negativo senza precedenti, che mostra come gli Stati Uniti siano entrati in contraddizione con la loro vecchia apologia del libero scambio.
Da qui parte il protezionismo americano?
Sì. I primi segni della svolta protezionista americana si registrano già dalla grande crisi finanziaria del 2008, sotto l’amministrazione Obama. La politica protezionista prosegue quindi in maniera più plateale con Donald Trump, va avanti anche sotto l’amministrazione Biden, e sarà certamente confermata dal prossimo presidente, che si tratti di Trump o di Harris.
Quindi, da questo punto di vista, secondo lei non c’è differenza tra i programmi dei due candidati alla presidenza Usa?
Le differenze sono nella politica economica interna, con Harris e i democratici più orientati a concedere qualcosa al rinascente movimento sindacale, mentre Trump e i repubblicani hanno un’agenda tutta centrata sulla difesa dei proprietari. Ma sul terreno delle relazioni internazionali le posizioni dei due candidati sono simili: dire addio al vecchio globalismo per imporre al mondo un nuovo regime di protezionismo commerciale e finanziario. A questa svolta gli americani hanno anche dato un nome: friend shoring. Significa che vogliono dividere l’economia mondiale in due blocchi, gli “amici” con cui proseguire gli affari e i “nemici” da tenere alla larga.
Una novità assoluta nel mondo contemporaneo: un mercato selezionato?
Sì, un protezionismo discriminante, che distingue tra Paesi e Paesi. Gli Stati Uniti ci spiegano che, da ora in poi, intendono portare avanti relazioni economiche solo con gli “amici” occidentali della Nato e i suoi alleati. Invece, vogliono elevare barriere commerciali e finanziarie con quei Paesi che non sono allineati alla politica di Washington e della Nato e che risultano anche creditori verso il resto del mondo. Ovviamente, nella lista di questi “nemici” c’è in primo luogo la Cina, che vanta un credito verso l’estero ormai di quattromila miliardi di dollari. Ma ci sono anche la Russia, diversi Paesi mediorientali esportatori di energia e che non sono allineati a Washington, e altri creditori non inquadrabili nella politica estera occidentale.
Quali saranno gli effetti di questa svolta protezionista americana?
Uno degli effetti è che gli Stati Uniti stanno cercando di contrastare in tutti i modi i tentativi di espansione internazionale delle vie commerciali e finanziarie promosse dalla Cina. Pensiamo alla “nuova Via della Seta”, un sistema di infrastrutture materiali e immateriali con cui i cinesi stanno cercando di connettersi sempre di più verso l’Ovest del mondo. Gli Stati Uniti osteggiano in tutti i modi questo progetto e premono sugli altri Paesi occidentali per impedir loro di aderire. Questa pressione diplomatica americana, come sappiamo, ha funzionato molto bene con il governo italiano. Giorgia Meloni ha deciso di stracciare gli accordi infrastrutturali che il governo Conte aveva precedentemente stipulato con i cinesi. Così, l’Italia prima ha aderito alla “nuova Via della Seta” cinese, poi è stata costretta a rimangiarsi la parola.
Quindi l’obiettivo americano principale è di boicottare le vie commerciali e finanziarie cinesi verso l’Occidente?
Non solo. Gli Stati Uniti promuovono anche vie di interscambio alternative alla via della seta. Una di queste vie si chiama Imeec: il “corridoio India-Medio Oriente-Europa”. È un grande progetto che mira a costruire collegamenti commerciali, logistici e di telecomunicazioni che, partendo dall’India, dovrebbero attraversare le zone calde del Medio Oriente per giungere all’estremità occidentale dell’Europa. È un corridoio fortemente voluto dagli Stati Uniti proprio come grande alternativa strategica e protezionistica alla politica cinese della “nuova Via della Seta”. L’Imeec tuttavia ha un grosso problema…
Quale?
Gli americani sanno che per completare l’Imeec è necessario “stabilizzare” l’area mediorientale attraverso cui il corridoio deve passare. La stabilizzazione politica, infatti, è un requisito essenziale per favorire lo sviluppo dei commerci e delle relazioni economiche di un’area, tanto più se la si vuole trasformare in una zona di transito di enormi volumi di merci, informazioni e denaro. A questo scopo, il primo problema da risolvere è la cosiddetta “normalizzazione” dei rapporti diplomatici tra Israele e i principali Paesi dell’area mediorientale. Per perseguire questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno promosso i cosiddetti “accordi di Abramo”. Questa iniziativa diplomatica comincia sotto l’amministrazione Trump, prosegue con Biden e dovrebbe andare avanti anche in futuro, che vinca Harris o Trump. Anche in questo caso abbiamo continuità di obiettivi tra i candidati.
Dopo il 7 ottobre 2023, però, gli accordi di Abramo sono saltati…
Poche settimane prima dell’attacco di Hamas in territorio israeliano, si stava quasi per giungere a una firma cruciale, per la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e Arabia saudita. Dopo il 7 ottobre il processo si è bloccato. Il problema degli accordi di Abramo è che sotto il tavolo delle trattative diplomatiche hanno sempre lasciato una grossa “bomba” innescata: è la questione palestinese, che non è stata mai seriamente affrontata nelle trattative. Quegli accordi hanno sciolto tutta una serie di nodi di ordine economico e diplomatico, ma hanno lasciato in sospeso il dramma palestinese. A un certo punto, com’era prevedibile, la “bomba” è esplosa. Così, anche gli accordi di Abramo e l’avanzamento del corridoio Imeec si sono interrotti.
Come si affronta dunque il nuovo scenario dopo il 7 ottobre?
Ci sono due strategie diplomatiche, una “morbida” e l’altra “dura”. La strategia “morbida” è quella ufficiale degli Stati Uniti, che almeno stando alle dichiarazioni vorrebbero seguire la via degli accordi di Abramo per continuare a normalizzare i rapporti con Israele e stabilizzare il Medio Oriente per via consensuale e diplomatica, nonostante tutto. La strategia “dura” è invece quella israeliana del governo Netanyahu, che considera apertamente falliti tutti i tentativi consensuali di stabilizzazione dell’area. Per il governo israeliano, la fase storica è ormai completamente cambiata. Per normalizzare i rapporti in Medio Oriente e sviluppare il corridoio Imeec alternativo alla via della seta cinese, la strategia “morbida” basata su meri avanzamenti diplomatici non è più perseguibile. L’unica opzione realistica rimasta in campo è quella “dura”: vale a dire, il tallone di ferro, la forza militare, inclusi i massacri di civili, per dimostrare che Israele è l’unico soggetto dotato della forza militare necessaria per proteggere lo sviluppo dei commerci della zona lungo direttrici filo-occidentali. Se ci pensiamo bene, questo è uno dei motivi per cui il governo israeliano ha alzato la tensione anche con il Libano e l’Iran, e ha di fatto aperto un conflitto diplomatico e militare con l’Onu e le sue forze di interposizione. Insomma, Israele sta usando dosi massicce di violenza in tutta l’area, allo scopo di proporsi come il dominatore indiscusso del Medio Oriente, e quindi anche come l’unico attore in grado di garantire il corridoio Imeec al quale gli americani tanto tengono. Alla fine, sembra proprio che la strategia israeliana stia prevalendo. Negli Usa siamo in una fase elettorale, c’è molta riluttanza ad affrontare apertamente il punto. Ma al di là dei comizi e delle parole di circostanza, sembra che a Washington ormai in tanti condividano la strategia israeliana della violenza per stabilizzare il Medio Oriente, e dare così via libera agli affari lungo il corridoio anti-cinese. Anche su questo punto, le differenze tra i due candidati alla presidenza Usa non sembrano sostanziali.
Possiamo considerare questo scivolamento verso la violenza militare in Medio Oriente come una conseguenza indiretta del friend shoring americano?
Il friend shoring ha avuto certamente un ruolo. In fin dei conti, la svolta Usa verso una linea protezionista che punta apertamente a dividere l’economia globale in due blocchi, di “amici” e “nemici”, porta come logica conseguenza che le vie di transito e le linee di interscambio commerciale e finanziario vengano scortate da ammassi sempre più imponenti di truppe e di cannoni. Vale per tutte le aree calde del mondo, e quindi anche per il Medio Oriente.
Però i conflitti nell’area mediorientale scoppiavano anche prima del 2008, anno della svolta americana verso il friend shoring. Pensiamo all’invasione dell’Iraq del 2003, per esempio.
Certo, ma anche in quella circostanza gli interessi materiali erano dominanti. Quella era la fase in cui gli Stati Uniti portavano avanti una linea di politica economica estera che si basava su quello che ho definito un “circuito militar-monetario”. In parole semplici, significa che all’epoca gli Usa impiegavano ingenti risorse finanziarie per sostenere i costi delle loro guerre nel mondo, dall’Afghanistan all’Iraq. Queste guerre avevano una natura tipicamente “imperialista”, nel senso che erano attivate da enormi interessi economico-finanziari. Tra questi, c’era il controllo dei grandi giacimenti di risorse naturali dei Paesi aggrediti al fine di migliorare la bilancia energetica americana, all’epoca in pesante passivo verso l’estero.
Dopodiché i soldati si sono ritirati e gli Usa pare abbiano scelto un’altra posizione nei confronti dei conflitti all’estero. Ci sono sempre spiegazioni economiche di questi cambi di rotta?
Le ragioni economiche essenzialmente sono due. In primo luogo, la nuova tecnologia per estrarre petrolio, detta fracking, ha indubbiamente consentito agli Stati Uniti di migliorare un po’ la bilancia energetica verso l’estero, riducendo così l’urgenza di andare a conquistare giacimenti nel mondo attraverso la forza. Ma soprattutto, a causa dell’indebitamento generale verso l’estero è entrato in crisi quel modello di “circuito militar-monetario” con cui gli Usa si indebitavano verso l’estero anche per sostenere le varie campagne militari nel mondo necessarie a preservare gli obiettivi “imperialistici” del capitalismo americano. In sostanza, le campagne militari a un certo punto sono entrate in contraddizione con i limiti dell’indebitamento americano verso l’estero. Il ritiro delle truppe dai luoghi di conflitto è il segno più plateale della crisi del vecchio “circuito militar-monetario” americano.
Le difficoltà degli Stati Uniti si registrano anche riguardo al ruolo del dollaro. La cosiddetta “de-dollarizzazione” è una possibilità concreta?
È certamente un obiettivo dichiarato dei cosiddetti Brics, il raggruppamento dei Paesi emergenti riuniti intorno alla Cina per cercare di creare un sistema di relazioni internazionali diverso da quello che ruota intorno agli Stati Uniti e al biglietto verde. Bisogna però dire che il processo di “de-dollarizzazione” sta avanzando anche per le scelte strategiche degli stessi americani. L’esempio più lampante è proprio il protezionismo del friend shoring. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali stanno comunicando alla Cina e agli altri grandi creditori d’Oriente che i capitali in dollari, che hanno accumulato nel corso degli anni attraverso l’esportazione e i liberi commerci, non possono più essere utilizzati in Occidente, perché adesso vigono le barriere commerciali e finanziarie. È chiaro che questa strategia ha uno spiacevole effetto collaterale: indebolisce il ruolo del dollaro come moneta di riserva e di scambio internazionale, perché ora i possessori orientali non sono più certi di poter usare i biglietti verdi per i loro affari. Insomma, avendo svoltato verso il protezionismo, gli Usa devono conseguentemente anche accettare un indebolimento del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ciò significa che proprio il friend shoring americano contribuisce al processo di “de-dollarizzazione”. È uno dei grandi paradossi di questo tempo, che si manifesta sul grande nodo della moneta perno del sistema mondiale. La storia del capitalismo insegna che questa è una questione cruciale. Come avvenne con la crisi della sterlina e dell’impero britannico esplosa all’inizio del secolo scorso, gli scontri sulla moneta di riferimento del sistema possono rivelarsi un innesco chiave di conflitti militari di vasta portata.
Un’ultima domanda sulle elezioni Usa. Lei sostiene che sull’agenda di politica estera i due candidati si somigliano. Però Trump dichiara di avere una soluzione per chiudere la guerra in Ucraina, sembra più orientato a trovare un accordo con Putin. La convince l’agenda “pacifista” del candidato repubblicano?
No. Trump vorrebbe portare avanti una strategia simile a quella di Nixon: dividere Russia e Cina per preservare l’egemonia americana. La novità è che, mentre Nixon cercava accordi coi cinesi per isolare la Russia sovietica dell’epoca, Trump vuol fare accordi coi russi per isolare la Cina. L’idea è che i cinesi sono i veri nemici economici dell’America ed è quindi su di essi che gli Stati Uniti dovranno concentrare le barriere, le sanzioni e i cannoni. Più che un’agenda “pacifista”, mi sembra una linea retta verso l’escalation militare globale.