Viene da sorridere a pensare che il governo sta lavorando alacremente per varare una nuova legge che limita le intercettazioni degli indagati a quarantacinque giorni, e che questo limite non si applicherà ai reati di mafia, terrorismo e di “codice rosso” (maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori, lesioni). Martedì 29 ottobre, alle 13,10, l’ufficio stampa del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha comunicato che a queste conclusioni è giunto un vertice di maggioranza, con lo stesso guardasigilli, i sottosegretari e gli esponenti dei vari partiti della coalizione. Sono trascorsi due giorni dagli arresti della procura di Milano per la gigantesca violazione della privacy, del furto di centinaia di migliaia di informazioni riservate, e la maggioranza di governo è impegnata a ridurre la durata delle intercettazioni ordinate dalla magistratura.
La situazione è drammatica. Negli atti dell’inchiesta milanese, lo scenario è di “allarme rosso per la sicurezza nazionale”. Sembra di assistere a un film di spionaggio.Le notizie che filtrano da Milano parlano di “banche dati strategiche nazionali” violate. Di segreti industriali e rapporti riservati dell’Eni ritrovati nel garage di uno degli indagati. E nell’inchiesta ci sono anche tracce di spioni israeliani, oltre che di 007 di casa nostra. Perfino una mail del capo dello Stato è stata violata. E ancora migliaia e migliaia di accessi illegali a tabulati telefonici, migliaia di tracciamenti dei cellulari. È al momento impossibile dare il numero esatto degli “intercettati” abusivamente dagli hacker, che appaiono, più che degli esperti informatici, degli spioni a mezzo servizio.
Si fa fatica, insomma, a separare uomini dell’intelligence, degli apparati di sicurezza da questi trafficanti che violano la privacy di cittadini e i segreti di imprese e imprenditori, anche di politici. E in questa inchiesta le vittime sono “trasversali”, non hanno un solo colore politico. Uno degli arrestati confida di avere “ottocentomila dati riservati in un hard disk”. È solo uno sguardo dal buco della serratura di quello che è, per dirla con gli inquirenti milanesi, “un gigantesco mercato di informazioni riservate”.
In questi ultimi anni di conflitti, abbiamo scoperto che la nuova guerra “asimmetrica” si vince con il controllo dei satelliti, delle reti informatiche, di Internet e dei social. Colpisce che gli indagati parlino di aiutare la Chiesa contro la Russia, il Vaticano contro i mercenari del gruppo Wagner.
Quello che sta accadendo in queste ore lascia impietriti. C’è un silenzio impressionante. Dell’opinione pubblica sbigottita. Della politica che balbetta. Che sembra tirare il fiato prima di sbilanciarsi.
Tra il 1955 e il 1964, ci fu lo scandalo dei fascicoli Sifar, una schedatura di massa di politici, militari, preti e cardinali, intellettuali, sindacalisti e giornalisti. Schede anche sugli orientamenti sessuali e sui vertici dello Stato, oltre che sui militanti di sinistra, i sindacalisti e gli oppositori in genere. Il generale Giovanni De Lorenzo decise di creare questo immenso archivio di dati, quando guidava il Servizio informazioni forze armate (Sifar). All’epoca si parlò di una schedatura di circa 157.000 soggetti. Parliamo di fatti accaduti quasi settant’anni fa, che segnarono la vita della giovane democrazia italiana, e anticiparono la stagione dello stragismo atlantico e neofascista.
Oggi stiamo attraversando una nuova e inquietante stagione di dossieraggi di massa in cui sono coinvolti magistrati, ufficiali delle forze di polizia, imprenditori, professionisti. E vittime risultano essere anche politici, imprenditori, giornalisti, uomini della cultura e dello spettacolo. Non sembra esserci un’unica “manina”. Probabilmente siamo di fronte a un fenomeno di centrali di hackeraggio di massa. C’è il “guardone” della banca pugliese, il finanziere e il magistrato dell’antimafia che sembrano avere avviato una tipografia di dossier su larga scala, l’imprenditore e il super-poliziotto che, soddisfatti, commentano di essere “quattro anni avanti” a tutti gli altri e si muovono liberamente nelle stanze di un Viminale “parallelo”.
Si muovono per soldi, naturalmente. In una intercettazione, due indagati parlano della promessa di una commessa del valore di “un milione di euro”. Ma non solo. La sensazione è che vi sia uno scambio di favori tra queste agenzie a fini di lucro e pezzi di apparati istituzionali della sicurezza e dell’intelligence. Secondo i pm milanesi i criminali dell’hackeraggio hanno contatti “con mafie e servizi segreti”.