Anche per le elezioni liguri vale una proverbiale vignetta di Altan, all’indomani di un’altra delusione elettorale: poteva andare peggio? No. La sconfitta nella regione terremotata dall’arresto del precedente presidente di centrodestra, contiene elementi politici e culturali di notevole gravità, che investono la leadership nazionale del Partito democratico e l’insieme dell’area della sinistra. Intanto, un principio: le elezioni con il maggioritario valgono per l’esito che danno, non per la distribuzione dei voti nei due campi. Si vince o si perde, e ogni risultato parziale è scritto sull’acqua, perché alla prossima elezione si ricomincia da capo.
In Liguria bisognava eleggere la nuova giunta e ha vinto un centrodestra che, solo fino a un mese fa, era dato in rotta, con almeno sette punti di distacco dal centrosinistra e una compagine sbaragliata dalle inchieste giudiziarie. Alla fine, abbiamo una giunta di centrodestra, con un campo elettorale allargato attorno al candidato Bucci, l’ex sindaco di Genova, il cui nome ricorreva in diverse intercettazioni con Toti, e al quale sembra che siano arrivati voti non marginali dai renziani, che erano già nella maggioranza comunale del capoluogo, e – si direbbe – anche voti in libera uscita dalle frange più centriste dello schieramento di Andrea Orlando.
Per contro, il centrosinistra è stato logorato dalla guerriglia anti-renziana dei contiani, ma soprattutto da un progressivo e irresistibile senso di rigetto che ha sfibrato i 5 Stelle, via via che si accostavano al Pd. Il dimezzamento dei voti pentastellati, con l’incremento ulteriore dell’astensionismo, ci dice che il “campo largo” del Pd si è sensibilmente rimpicciolito. Questo dato non è legato a un clima contingente, o a una deflagrazione momentanea, per cui possiamo cavarcela affermando che il movimento di Conte ha sbagliato tutto. Politicamente, quello che emerge in Liguria – e che potrebbe ripetersi anche nelle altre due regioni che andranno al voto, Umbria ed Emilia-Romagna – è l’ennesimo cronico e strutturale antagonismo della base sociale della creatura di Grillo e Casaleggio nei confronti di qualsiasi legame a sinistra. Non bisogna essere scienziati della politica per ricordarsi che il fungo grillino cresce in chiave anti-elitaria, esasperando la propria estraneità rispetto alla cultura di governo della sinistra, tollerando invece quella della peggiore destra, la Lega salviniana nella sua fase più eversiva, vista comunque come un fenomeno dirompente e destabilizzante di ogni idea di governance tradizionale.
Questo è il buco che il vertice nazionale del Pd esorcizza con i suoi patetici appelli all’unità. Si tratta di riconoscere che siamo dinanzi a un tipico esempio di sovversivismo dei ceti medi, per riprendere e adattare la formula gramsciana, che non può essere tatticamente sopito ma solo politicamente riprogrammato. I 5 Stelle devono essere attraversati da una vera battaglia politica, che ne riclassifichi vocazione e cultura.
Un secondo buco aperto a Genova riguarda la sinistra del Pd. Nell’attuale spettro politico, quello che manca ai democratici non è un nuovo asso nella manica per agganciare il centro, che non esiste come area moderata, ma una proposta radicale che contenda aree popolari e rancorose alla destra sovranista. Manca un Mélenchon alla sinistra del Pd, non un Macron alla sua destra.
Ovviamente, non intendiamo l’ennesima improvvisazione nominalistica, ma un processo di costruzione e radicamento di una formazione che ponga con forza i temi della ridistribuzione del reddito, della tassazione delle rendite, della rottura degli assi ereditari dell’accumulazione professionale, della legalizzazione della massa di profitti in nero,che ancora zavorrano l’economia nazionale.
Siamo quindi mille miglia lontani dall’orizzonte della segreteria Schlein, che continua a crogiolarsi nelle polemiche quotidiane contro le pacchiane esibizioni del personale politico della destra, che non incidono sugli equilibri del consenso – come insegnò Berlusconi con lo stalliere di Arcore, con il bunga-bunga o la nipotina di Mubarak. Finché la sua era una proposta che coagulava assistenzialismo e rampantismo, il cavaliere poteva fare quello che voleva. Oggi Meloni si trova peraltro con il vento trumpiano nelle vele, e pensare di bucargliele con l’affaire Sangiuliano sembra davvero patetico.
Persino il dato di Genova – ennesima conferma del cronicario del ceto medio pensionato urbano, che si indigna per le inchieste ma non tollera alcuna alterazione ai propri livelli di consumo – ci dice che la sinistra non riesce a sfondare, ma solo a protestare contro il governo altrui. La crisi industriale, con i ceti professionali e tecnologici che a Genova non hanno votato, la striscia speculativa della costa, la linea d’ombra dell’economia semi-illegale del turismo, sono blocchi di interessi che non possono essere scalfiti da uno scandalo, ma solo da una riprogrammazione di processi economici e di strategia finanziaria che spostino il baricentro dello sviluppo, premiando i produttori e castigando con forza la speculazione. Se non si innesta questa radicalità, continueremo a perdere i voti popolari e a non intercettare i ceti medi innovativi, permettendo alla destra di fare quello che vuole.