In Uruguay, il Frente amplio – la coalizione che raggruppa socialisti, comunisti, democristiani ed altre organizzazioni minori di sinistra – è stato il più votato nelle elezioni presidenziali e legislative di domenica 27 ottobre. Yamandú Orsi, ex sindaco di Canelones e candidato alla massima carica dello Stato, sostenuto da Pepe Mujica, ha ottenuto il 43,9%. Il risultato lascia alla formazione progressista l’amaro in bocca, deludendo le sue speranze di chiudere la partita già al primo turno. Dovrà andare al ballottaggio, il 24 novembre, con il candidato Álvaro Delgado, espressione del centrodestra attualmente al governo, che va meglio rispetto alle previsioni, con il 26,7%. Un appuntamento che vede in difficoltà il Frente amplio, dal momento che Delgado, oltre ai suoi voti, potrà contare sul 16,2% ottenuto dal Partido colorado di Andrés Ojeda, cresciuto di tre punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti, e sull’apporto di altre formazioni minori, che complessivamente portano la destra ad avere il 47% contro quasi il 44% della sinistra.
Quanto al parlamento, composto da 99 deputati e 30 senatori, la destra conquista la maggioranza alla Camera dei deputati con 50 eletti, rispetto ai 47 del Frente amplio, mentre Identidad soberana, di tendenza sovranista, ottiene due seggi. Al Senato, il Frente conquista sedici seggi, mentre nove vanno al Partido nacional e cinque al Colorado. Gli uruguaiani votavano anche per due referendum. Il primo riguardava una proposta avanzata dal sindacato Pit-Cnt, che voleva abbassare di cinque anni l’età pensionabile, ora fissata a 65; equiparare la pensione al salario minimo nazionale ed eliminare i fondi pensione privati. La proposta ha ottenuto il 40%, quindi è stata bocciata. Respinto anche l’altro quesito referendario, che mirava a consentire le perquisizioni notturne della polizia vietate dalla Costituzione. In Uruguay – Paese ad “alto reddito” e di “altissimo sviluppo umano”, secondo le valutazioni della Banca mondiale e dalle Nazioni Unite – il voto è obbligatorio, per cui l’affluenza ha raggiunto il 90% dei 2,7 milioni degli aventi diritto. In una nazione tra le più sviluppate dell’America latina, il prossimo governo dovrà affrontare il problema della sicurezza – tema, questo, che riguarda molti Paesi dell’area, causato dai fenomeni migratori spesso controllati dalla malavita e dal narcotraffico – e inoltre quello della perdurante povertà infantile, stimata al 20%.
Nello scorso fine settimana, anche 15,4 milioni di cileni sono andati alle urne per eleggere, con voto obbligatorio reintrodotto nel 2022, 345 sindaci e 16 governatori regionali. La consultazione si è svolta in un’atmosfera di grande tensione politica, aggravata dall’aumento della criminalità che sta mettendo in ginocchio il Paese, e da diversi scandali in cui sono coinvolte sia la maggioranza governativa sia l’opposizione di destra. La prima, colpita dalle accuse di stupro riguardanti l’ex sottosegretario Manuel Monsalve, che avevano fatto ipotizzare un disastro elettorale, che però alla fine non c’è stato; e la seconda, che riguarda Chile vamos, coinvolta in un’indagine per traffico di influenze.
Dato il lungo logoramento subito dal governo progressista di Gabriel Boric, non ha stupito che la destra abbia migliorato i risultati ottenuti precedentemente, guadagnando trentaquattro nuovi primi cittadini, mentre la maggioranza ne abbia persi quaranta. La formazione di destra Chile vamos ha conquistato 122 poltrone, rispetto alle 111 prese da Contigo Chile mejor, l’alleanza dei partiti della maggioranza governativa. Il resto è andato in gran parte agli indipendenti, voce importante della politica cilena; mentre all’estrema destra del Partido republicano, guidato da José Antonio Kast, sono andati otto sindaci da uno che ne aveva. Uno ciascuno, inoltre, è andato alla nuova formazione ultraconservatrice del Partido social cristiano e al Centro democratico.
Perdendo la comuna di Santiago – ovvero il settore centrale della grande conurbazione che forma la Grande Santiago, capitale del Paese – la sinistra ha perso un simbolo. Il luogo che ospita il centro storico, i primi quartieri della città e le principali sedi dello Stato. Terza comuna per numero di abitanti, Santiago Centro ha anche il maggior numero di elettori (378.363), di cui il 32% immigrati. Negli ultimi ventotto anni, mai un sindaco ha ottenuto la rielezione – e così anche questa volta. Nelle scorse elezioni, nel 2021, aveva fatto notizia perché era stata conquistata dalla giovane Irací Hassler del Partito comunista. Ma su Hassler, che si ricandidava, ha avuto la meglio l’ex ministro della Difesa dell’ex presidente Sebastián Piñera, Mario Desbordes, personaggio della destra tradizionale di tendenza centrista e con una certa apertura ai temi sociali. Questi, nella notte della vittoria, ha festeggiato apparendo nella Plaza de Armas insieme a Evelyn Matthei, più che probabile candidata della destra tradizionale alle elezioni del 2025, attualmente sindaca di Providencia, che al momento straccia tutti nei sondaggi. Un rovescio per la sinistra, dato che da sempre il partito che vince a Santiago è anche quello che poi conquista la Moneda, sede ufficiale del presidente della Repubblica. Desbordes è un avvocato di 56 anni, militante di Renovación nacional, ed è stato anche ufficiale dei carabineros. Ha vinto facendo una campagna sulla necessità di migliorare la situazione della sicurezza: un problema che sempre più affligge la società cilena in balia della malavita, in buona parte di origine venezuelana.
Ha riconquistato, invece, Maipú, secondo comune più popolato del Cile, Tomás Vodanovic, un sociologo di 34 anni che si ricandidava per la nuova sinistra del Frente amplio. Pur essendo un perfetto sconosciuto, nel 2021 era finito con l’essere il sindaco più votato di tutto il Paese. Durante il primo mandato, è riuscito a risanare la disastrosa situazione finanziaria che aveva ereditato, ed è stato premiato. Mentre Puente Alto, che con 660mila abitanti è il comune più popoloso del Cile, è stato conquistato dall’indipendente Matías Toledo, che nel 2023 ha fondato il Movimiento Recuperemos Puente Alto, raggruppamento di più di 180 organizzazioni sociali che si propongono di difendere la comunità e recuperarne l’identità. Toledo – uno dei protagonisti della mobilitazione degli studenti delle scuole superiori nel 2006, chiamata anche la Revolución pingüina, che si erano battuti per il diritto all’istruzione contro la scuola di Pinochet – si identifica con la “classe operaia”, ed è riuscito a battere Karla Rubilar, di Chile vamos, ex ministra di Sebastián Piñera. Rieletta anche la trentatreenne Macarena Ripamonti, attuale sindaco di Viña del Mar, militante del Frente amplio. E a Valparaíso, porto più importante e seconda città del Paese, è stata eletta Camila Nieto del Frente amplio. Ha battuto Carla Meyer, che rappresentava la continuità con il progetto dell’attuale sindaco Jorge Sharp, e Rafael González, il candidato del Partido republicano. Il trionfo del partito del presidente della Repubblica, Gabriel Boric, a Valparaíso è uno dei più importanti di queste elezioni comunali, insieme alla rielezione di Tomás Vodanovic a Maipú. Nelle elezioni per i governatori, undici delle sedici regioni del Cile dovranno andare al ballottaggio il prossimo 24 novembre, perché nessuno dei candidati ha ottenuto più del 40% dei voti. Tra queste, la regione metropolitana della Grande Santiago e quella di Gran Valparaíso.
In un discorso diffuso dalla Moneda, domenica sera, Boric ha affermato che “queste elezioni hanno del dolce e dell’amaro per tutti i partiti. Non c’è nessuno che possa attribuirsi trionfi travolgenti. (…) Le previsioni catastrofiche da entrambe le parti non si sono avverate. Abbiamo un Paese diverso e abbiamo il dovere di convivere meglio tra di noi e che le legittime differenze politiche non implichino che non lavoriamo per il bene comune del Cile e del suo popolo”. Boric si è detto “felice” per il risultato delle elezioni, che ha consentito alla sinistra di mantenere città di peso come Maipú, Viña del Mar e Valparaíso, nonostante la perdita della comuna di Santiago Centro.
Ha votato anche il Brasile, dove circa trenta milioni di elettori sono stati chiamati al ballottaggio per rinnovare le cariche in cinquanta comuni, tra cui quindici capitali. Ricardo Nunes, 56 anni, il candidato sponsorizzato senza entusiasmo da Jair Bolsonaro, che gli avrebbe preferito la meteora di ultradestra Pablo Marçal, è stato rieletto sindaco di San Paolo contro il candidato sostenuto dal presidente Lula da Silva, Guilherme Boulos, di quarantadue anni. Ha vinto senza sorprese, con il 59% dei voti e venti punti di differenza su Boulos (40%), in quella che è la città più ricca del Paese, con i suoi dodici milioni di abitanti, sostenuto senza titubanze dal bolsonarista Tarcisio de Freitas, governatore di San Paolo. Le elezioni sono cadute a metà del mandato di Lula, mai molto attivo nella campagna, e in coincidenza del secondo anniversario della vittoria di misura che l’ex sindacalista ha ottenuto nel 2022, quando ha guidato un’ampia coalizione che spaziava dalla destra tradizionale all’estrema sinistra.
Il risultato rappresenta un duro colpo per il Pt, il Partito dei lavoratori fondato da Lula, dal momento che rappresenta un Paese attratto dalla destra tradizionale e dal bolsonarismo, che ha dato alla sinistra solo il governo di due delle ventisei capitali di Stato, contro le cinque andate all’estrema destra e le nove alla destra. Dei quattro candidati che il Pt aveva schierato nelle capitali statali, infatti, ha vinto solo Evandro Leitão, sindaco di Fortaleza, avendo ottenuto circa undicimila voti in più rispetto al candidato del partito di Bolsonaro. È complessivamente un risultato destinato a pesare sull’azione di governo, tanto più che Lula si trova a operare in un Congresso dominato da una destra impegnata a sabotare le sue iniziative, e che, quando accetta di negoziare, si fa pagare salato qualsiasi sostegno parlamentare. Un risultato che conferma che la carta migliore di cui il Pt dispone è ancora quella del quasi ottuagenario Lula, per il quale già si parla di una ricandidatura alle prossime elezioni.
In un panorama oggettivamente poco confortante, rimane la consolazione che, nella maggior parte delle contese interne, i partiti della destra tradizionale hanno avuto la meglio su quella estremista di Bolsonaro. Il che fa intravedere l’emergere di una tendenza che premia un approccio meno ideologico. Se risulta chiaro, da questa tornata elettorale, che Lula e il suo partito escono malconci, pure il loro diretto avversario Bolsonaro non scoppia di salute. Da domenica scorsa, è ridimensionato, avendo perso il monopolio della rappresentanza dell’odio contro Lula e la sinistra.