È evidente che tra Conte e Grillo sia il primo ad avere ragione, se non altro perché da tempo sta cercando di portare fuori il Movimento 5 Stelle (pessimo nome, che alla fine potrebbe anche essere cambiato) dalla palude qualunquista da cui prese le mosse. Conte ha soprattutto ragione se si pensa che, nonostante il ben noto moralismo, i 5 Stelle sono ancora legati a Grillo da un ignobile contratto da trecentomila euro all’anno – non proprio bruscolini. Per fare che cosa, poi? Comunicazione – la parola magica che, nella forma di una comunicazione politica spettacolarizzata via Internet, sostituisce la politica vera e propria. Quel contratto è la prova provata che i due fondatori, Grillo e Casaleggio, avevano un occhio puntato sui soldi, nel momento in cui diedero vita alla loro creatura politica: nessuna generosità, un affare come un altro. Ed è mai possibile che un vecchio riccone come Grillo, che si è fatto i soldi con i suoi spettacoli, debba percepirne ancora degli altri da un gruppo politico che ostenta invece atteggiamenti spartani nei confronti dei propri eletti?
Più in particolare, la vicenda mette in chiaro, ormai in maniera definitiva, che la matrice aziendale, da cui i 5 Stelle sono nati, era la stessa del berlusconismo da loro tanto odiato. Sia pure con un approccio diverso rispetto a Forza Italia – con un’insistenza sulla partecipazione democratica attraverso la rete –, la sostanza era la stessa: due imprenditori, anziché uno come nel caso di Forza Italia, si danno a un’avventura politica, mettendola su, nel caso di Casaleggio, grazie alla sua azienda di comunicazione (non va dimenticato che il Gianroberto, prima di mettersi in proprio con Grillo, era stato il curatore della comunicazione dell’effimera Italia dei valori di Di Pietro).
Ora, è vero che Conte ha ereditato un “partito personale” (divenuto tale dopo la morte dell’altro co-fondatore), e che, a sua volta, non è estraneo a un leaderismo personalistico, soprattutto quando fa mostra di volere competere con il Pd. Ma ciò non toglie che abbia ragione nel volersi sbarazzare di Grillo. Tanto più che i voti che c’erano da perdere – in gran parte rientrati nell’astensione, quando non ritornati a destra – i 5 Stelle li hanno già persi.
Conte ha anche ragione a essersi impuntato sulla faccenda del “ritorno a casa” di Renzi (tuttavia volutamente dimenticando le difficoltà interne affrontate dalla segretaria Schlein, che ha preso in mano un partito mezzo renziano); ma non può più aspirare, con il dissolvimento del qualunquismo originario, che proprio lui si è impegnato a dissolvere, a essere il leader della coalizione alternativa alle destre. I 5 Stelle devono rassegnarsi: sono un cespuglione, se non un cespuglio, nel “campo largo”.
Del resto anche così conservano un potere di interdizione non da poco: se il Pd, andando avanti nella costruzione di una coalizione, sarà spinto a prendere una posizione meno sdraiata su quella dell’amministrazione statunitense (e questo sarebbe più facile nel caso in cui fosse rieletto Trump), ciò sarà in parte un frutto dell’influenza della linea pacifista di Conte. Il quale però – ripetiamolo – non potrà che essere un comprimario, non il candidato alla presidenza del Consiglio, nell’alleanza che verrà.