Parlare della legge di Bilancio di questi tempi è diventato un po’ come parlare del sesso degli angeli. Non solo perché qualche incidente di percorso, come quello sui migranti trasferiti in Albania e poi frettolosamente riportati sul suolo italico, ha costretto il governo Meloni a posporre l’avvio dell’iter parlamentare della manovra – alla fine approdata alla Camera, sia pure con qualche giorno di ritardo sul previsto – per occuparsi d’altro, cioè per varare in fretta e furia il decreto sui Paesi “sicuri” nei quali sarebbe possibile il rimpatrio accelerato da gestire attraverso i centri realizzati dall’altra parte dell’Adriatico. E nemmeno solo perché una parte delle coperture finanziarie che sarebbero necessarie per dare fiato alla manovra è attesa dal “concordato fiscale”, voluto dal ministro draghiano-leghista Giancarlo Giorgetti; un provvedimento sui cui risultati, che saranno misurabili attorno a metà novembre, c’è un diffuso scetticismo degli operatori economici (misurato in un recente sondaggio del “Sole 24 Ore”) che sembra avere contagiato anche la maggioranza governativa.
Il punto cruciale è rappresentato dalla gabbia imposta dal Piano strutturale di bilancio (Psb), che non è altro che l’applicazione del nuovo Patto di stabilità, lo strumento che segna la rivincita del vecchio rigorismo finanziario in salsa europea (ne abbiamo riparlato di recente qui, raccontando del giorno di gloria di Mario Monti al Senato). Una rivincita che torna a colpire il nostro Paese dopo la stagione dell’emergenza Covid, che aveva portato a un approccio differente su questioni chiave come il debito comune europeo e il ruolo dello Stato negli investimenti per rilanciare la crescita economica e tagliare il debito pubblico.
Non a caso, il “Corriere della sera”, uno dei messaggeri tradizionali dell’austerità europea, ha recentemente sottolineato che più che il dettaglio della manovra a Bruxelles preme la cornice: per accettare di diluire in sette anni l’aggiustamento fiscale, al quale Roma si impegna col Psb, l’Unione pretenderà le “riforme” (in questo contesto le virgolette sono d’obbligo) “su fisco, concorrenza, amministrazione pubblica e giustizia, che vanno indicate subito dal 2025 al 2031”. Piani stringenti e scadenze che l’Unione potrebbe poi sottoporre a monitoraggio, tenendo l’Italia sotto la spada di Damocle di una possibile accelerazione della correzione dei conti pubblici: non più in sette ma in quattro anni.
Su questo scenario – che proietta sulla prossima legge di Bilancio addirittura l’ombra dell’irrilevanza – si innestano le pessime notizie sulle prospettive dell’economia reale italiana. L’ultima mazzata, in ordine di tempo, è arrivata dal Fondo monetario internazionale, che, nel suo più recente World Economic Outlook,ha limato di un decimale le previsioni del tasso di crescita per il 2025 del Pil: ora allo 0,8%, con una correzione ancor più pesante per l’eurozona, dall’1,5 passata all’1,2%, soprattutto in ragione delle difficoltà della Germania; difficoltà che non potranno che ripercuotersi sull’economia italiana – e soprattutto sulla produzione industriale, che vive una progressiva contrazione apparentemente senza via di uscita: ad agosto, secondo l’Istat, il calo rispetto al 2023 era del 3,2%.
A grandi linee, i contenuti della manovra sono noti: conferma del taglio della flat tax per gli autonomi e del cuneo fiscale per i dipendenti, di quest’ultimo viene estesa la platea dei beneficiati; “riallineamento” delle accise su benzina e gasolio, oggetto di grandi polemiche delle opposizioni che ricordano le vecchie promesse di Giorgia Meloni sul taglio delle medesime; tagli lineari alla spesa corrente dei ministeri; risorse aggiuntive tutte da chiarire sulla sanità, il settore dei servizi pubblici forse maggiormente in sofferenza: sono 860 milioni, come indica il Documento programmatico di bilancio, o oltre due miliardi, come si è affrettato a precisare il ministero dell’Economia? Poi ancora la rimodulazione degli sconti fiscali (secondo l’esecutivo andrà a beneficio di redditi medi e bassi, ma con l’introduzione del quoziente familiare per favorire le famiglie numerose) e l’aumento della tassa sulle criptovalute, di cui probabilmente si discuterà in sede di esame parlamentare, con la Lega che frena. Infine – indicativo di una tendenza non nuova ma significativa, per non dire preoccupante – la spinta ai fringe benefits e ai premi di produttività detassati; lo Stato sacrifica una quota di risorse (quasi un miliardo, nella manovra Meloni-Giorgetti), i lavoratori (in genere delle fasce medio-alte, la quota meglio retribuita della platea dei dipendenti) ottengono nell’immediato benefici che pagheranno più in là: perché compensano inflazione e mancata crescita dei salari, ma non alimentano il salario differito, ovvero Tfr e pensioni.
La palla passa ora alle minoranze parlamentari, chiamate a ipotizzare una strategia unitaria di opposizione (previsione: il focus sarà sulla sanità, parola d’ordine che unifica senza troppa fatica Pd, 5 Stelle e cespugli vari, perfino quelli centristi con spiccate tendenze alla collaborazione con la maggioranza di destra-centro su temi chiave come la giustizia). E passa alle forze sociali, che si sforzano sempre meno di nascondere le loro tradizionali divisioni. Il segretario della Cisl Luigi Sbarra, in attesa di verificare il testo ufficiale, si è sbilanciato a dire che si tratta di una manovra “che recepisce molte rivendicazioni” del suo sindacato. Maurizio Landini, leader della Cgil, preme per lo sciopero generale, ma dilata nel medio periodo gli obiettivi di lotta, e ha precisato che le recenti manifestazioni di piazza (automotive e funzione pubblica) sono comunque il segnale di “una mobilitazione che intende proseguire anche oltre la manovra”. “Non staremo fermi”, ha promesso dal canto suo il numero uno della Uil Pierpaolo Bombardieri. Sul fronte delle imprese, qualche mugugno è arrivato dai rappresentanti dei costruttori per la revisione dei bonus in edilizia, ma il presidente della Confindustria, Emanuele Orsini, ha garantito che sulla legge di bilancio gli imprenditori “stanno dialogando” con il governo.
Se questo è lo scenario, si spera che ci venga risparmiata, per una volta, la consueta retorica sull’autunno caldo in arrivo. Al più sarà tiepido, e per ragioni legate ai cicli climatici. E, anche a giudicare dalle indicazioni che le giungono dai sondaggi e confermano il consenso di cui godono lei, il suo partito e nel complesso anche il governo, per Giorgia Meloni si tratterà di un tepore tutt’altro che spiacevole.