Modello è l’Albania, modello è Genova, modello è Caivano, modello è il Piano Mattei per l’Africa: è l’Italia dei modelli. Modelli che incitano all’emulazione. Così, mentre alcuni tramontano, come pare sarà per quello di Genova, se ne generano continuamente altri: il modello Albania potrebbe produrre, da una sua costola, un “modello Uganda”, il “modello Caivano” già si candida ad assurgere a “modello periferie”, e via dicendo. Un Paese ormai brulicante di poveri, in cui milioni di persone hanno rinunciato alle cure mediche per motivi economici, con i salari più bassi d’Europa e con il numero di morti sul lavoro più alto, da cui i giovani fuggono, sale in cattedra, spiega a un’Unione europea disorientata come fare, cosa fare.
Una premier caratteriale, con il viso gonfiato dagli interventi estetici, infagottata in abiti pacchiani, pontifica, straparla, o ripete luoghi comuni nelle sue inconcludenti trasferte turistiche internazionali; e si propone essa stessa come una maestrina dalla penna rossa, come un modello politico di leadership di successo da imitare, mentre una stampa nazionale sempre più autarchica e servile ne celebra i supposti trionfi. Impazza un furore pedagogico-ordinativo, che non è solo della premier, ma pare attraversare tutti i membri del governo. Perché questa modellistica? Che senso ha parlare ossessivamente di modello? E in che rapporto stanno tra loro gli svariati modelli finora proposti?
Com’è noto un modello è una rappresentazione semplificata della realtà, non rappresenta il mondo intero, ma solo una parte di esso, può differire molto poco dalla realtà, oppure essere molto astratto e tralasciarne componenti a volte rilevanti: i modelli non possono mai avere tutte le caratteristiche dell’originale, e la loro creazione è quindi sempre un atto soggettivo. L’ideatore decide quali elementi sono rilevanti e quali no, a seconda delle finalità che si ripromette. In ambito scientifico i modelli vengono infatti cercati, formati e utilizzati per trasformare l’indeterminatezza del mondo in determinazione, per dare ordine al disordine, per creare un ordine che può essere naturale, sociale, spirituale. La ripetizione e la ripetibilità ne sono tra i principi base, un modello è quindi anche una ricetta, è composto da ingredienti che si ritiene siano replicabili. I modelli hanno inoltre una caratteristica utilità pragmatica: svolgono una funzione specifica. Una funzione che serve a determinati soggetti, che dura per un certo periodo di tempo, oppure ha uno scopo esecutivo. Trasformano gli oggetti da esaminare in una forma gestibile, con operazioni ponderate che dovrebbero essere dotate di efficacia. Ma per funzionare devono essere inseriti in un pensiero unificante, altrimenti rimangono frammenti che svolgono solo una opportunistica funzione di semplificazione di un problema.
Un altro vantaggio dei modelli è che permettono di simulare la realtà. Creano uno spazio immaginario in cui si può tranquillamente sperimentare come un cambiamento corrispondente a quanto concepito sulla carta influenzerebbe il mondo reale. Da un lato, il modello dovrebbe riflettere la realtà nel modo più accurato possibile; dall’altro, dovrebbe semplificarla notevolmente. Trovare un simile equilibrio non è facile. E il governo italiano comincia a sperimentarlo quotidianamente. Se il modello Albania (peraltro nemmeno originale, ma ripreso dal modello Ruanda, nato dalla disperazione dei tories di fronte all’approssimarsi della sconfitta elettorale, e mai messo in pratica) comincia a fare acqua, occorre tappare la falla alla bell’e meglio, altrimenti la simulazione di realtà, l’utopia miserabile del Paese depurato dai migranti crolla, portandosi via una fetta di consensi.
E qui casca l’asino. Se la costruzione è fallace, la messa in atto del modello, la sua sperimentazione empirica ne mostra definitivamente le imperfezioni. Ma, come mostra la vicenda albanese, non è possibile porre rimedio con un ricorso o con il decretino che stabilisca a capocchia quali Paesi sono sicuri e quali no, quando questo accertamento è compito dell’Unione europea.
Se il modello è imperfetto o falso, se costruisce una simulazione della realtà che si rivela impraticabile nei fatti, il problema non risiede in un suo singolo aspetto, ma nel paradigma da cui è scaturito. E qui c’è forse l’unico tratto comune ai vari modelli che si vanno sovrapponendo nel nostro Paese: l’idea dell’uso della forza in luogo della politica, della imposizione di un ordine etero-normato e improvvisato, magari con una maschera affaristica come nel caso del Piano Mattei, peraltro sprovvisto di ogni aspetto ideale e di una reale intelligenza dei problemi che si affrontano.
Ora mettiamo a posto tutto – pare dire la maestrina dalla penna rossa –, di punto in bianco facciamo una bella Italia ordinata, sistemiamo il mondo in modo che non ci disturbi più di tanto, diamo forma, con l’ausilio della polizia e dell’esercito, a periferie che non hanno forma, troviamo un modo di fare convivere affari e politica a partire da una violazione delle norme democratiche, e quando ci si rimprovera di non stare alle regole del gioco accusiamo la magistratura di metterci il bastone tra le ruote.
Se c’è dunque uno straccio di pensiero che unifica i modelli che inflazionano la quotidianità del Paese è proprio quello del tramonto delle modalità di intervento consuete e del ricorso alla forza. Forza materiale, forza politica, forza del denaro, non esiste un contesto teorico di riferimento cui ricondurre l’agire, l’importante è finire, dare l’impressione di avere sbrigato una pratica, di avere concluso qualcosa. E allora il modello è utile, perché possiede un’autonomia funzionale che può (entro certi limiti) fregarsene della realtà, offrire soluzioni semplici ancorché temporanee. È concepito in vista di un obiettivo, quello di dare l’impressione che si risolvono delle questioni, al di là dei suoi effetti reali e delle sue conseguenze, della sua evidente insufficienza. Può persino essere un contenitore vuoto, come nel caso del Piano Mattei. Ma per raggiungere queste finalità deve essere “plebeizzato”, ridotto a pochi punti facilmente comprensibili, che possono essere ridotti a propaganda, a comunicazione rozza.
Risiede qui anche il segreto della sua seduttività: il potere del modello sta nello spacciare azioni circoscritte e monche per simulazioni di pratiche efficaci, per tentativi esemplari e reiterabili. Non si può negare che esista, sia a livello di politica “alta” sia a livello popolare, una forza di attrazione della proposta delle soluzioni semplici, una presa che nasce da diversi fattori. Possono essere di tipo strategico come di tipo strumentale: basti pensare all’iniziale interesse manifestato per il modello Albania dal primo ministro francese Barnier, alla ricerca di biada da dare in pasto al Rassemblement national, mentre il cancelliere tedesco Scholz, pur in difficoltà per l’ascesa della destra xenofoba, ha snobbato qualche giorno fa la scheletrica presentazione meloniana di quella che è stata venduta come la soluzione ottimale alla questione migratoria. Per altro verso, a livello popolare, ormai non solo in Italia, tra le masse domina una colpevole ingenuità, una sorta di inconsapevolezza del fatto che quello che viene proposto non è una soluzione, un desiderio di credere a quanto viene raccontato, che si tratti dell’Albania, o che si tratti della fantomatica “remigrazione” di cui delira Alternative für Deutschland. Poi però colui che è inizialmente attratto da misure tanto facili a proporsi, quanto fallaci, dovrebbe prima o poi pervenire a una maggiore consapevolezza di fronte ai risultati; dovrebbe prima o poi comprendere che il modello è una simulazione della politica, non è la verità. Con tutto quello che ne consegue. Diceva La Rochefoucauld: “La verità non produce tanto bene nel mondo quanto male vi producono le sue apparenze”.