Il 21 settembre scorso, si è tornati a parlare dello Sri Lanka in occasione delle elezioni presidenziali, vinte da un personaggio che potremmo definire novecentesco, ovvero Anura Kumara Dissanayake, leader del Janatha vimukthi peramuna (Jvp), un partito di impostazione marxista. Giornalisti e studiosi di quell’area geografica ricorderanno la guerra civile tra il governo centrale di Colombo (in realtà esiste anche un’altra capitale, Sri Jayawardenepura Kotte, dove sono presenti altre sedi istituzionali) e il movimento Tigri di liberazione del Tamil Eelan (Ltte) guidato da Velupillai Prabhakaran, ucciso dai soldati governativi il 18 maggio 2009. Un conflitto che insanguinò la piccola isola (65.610 km quadrati, con circa ventidue milioni di abitanti, situata a sud dell’India), scoppiato il 23 luglio del 1983 e terminato, sia pure con alcuni momenti di tregua, appunto nel 2009. Con un bilancio tra le ottantamila e le centomila vittime, fino alla vittoria definitiva del governo cingalese, grazie all’arresto in Thailandia (il 5 agosto del 2009) dell’ultimo leader del movimento, Selvarasa Pathmanathan.
I Tamil sono un’etnia di religione in prevalenza induista, con una presenza di musulmani e cristiani – a differenza del resto del Paese dove a prevalere sono i buddisti –, ed erano riusciti a controllare il 76% del nord dell’isola. Una modalità utilizzata nella lotta senza quartiere contro il governo centrale fu quella degli attacchi kamikaze, messi in atto prevalentemente da donne guerrigliere. L’azione più eclatante fu il clamoroso assassinio del primo ministro indiano, Rajiv Gandhi, il 21 maggio del 1991. Come se non bastasse, a soli nove anni dalla fine della guerra, nel 2018, il Paese si ritrovò nel bel mezzo di nuove violenze, scaturite in questo caso dal conflitto fomentato da false notizie, messe in giro ad arte da fondamentalisti buddisti attraverso Facebook e Twitter.
Secondo queste “fake”, nel Paese si stavano scatenando pestaggi organizzati da gruppi di musulmani, fino all’incredibile quanto falso complotto (ancora di matrice islamica) finalizzato allo sterminio della maggioranza buddista attraverso la realizzazione, nella città di Ampapra, di pillole distribuite segretamente, al fine di rendere sterile quella popolazione nell’ambito di un progetto di “sostituzione etnica” o di “soluzione finale”. Uno scenario da film di fantapolitica, che però provocò scontri violentissimi tra i due gruppi, con decine di morti e centinaia di feriti. Questa forma di buddismo radicale si chiama Theravada, trasformatosi poi nel movimento Bbs (Bodu bala sena, “Forza del potere buddhista”), che predica la cacciata dei musulmani dal Paese.
Come reazione all’ondata di violenze immotivate, il governo bloccò i social, che per definizione amplificano tutto, e soprattutto le tensioni interetniche o inter-religiose presenti nel piccolo Paese asiatico. Sono stati costretti a confrontarsi con questo clima prima Nandasena Gotabaya Rajapaksa, leader dello Sri Lanka podujana peramuna (Slpp), eletto il 17 novembre del 2019 e dimessosi, con tanto di fuga all’estero, il 14 luglio del 2022, in seguito alle violente proteste determinate dalla devastante crisi economica che stava travolgendo il Paese (vedi qui); e successivamente il nuovo presidente ad interim Ranil Shriyan Wickremesinghe, leader dello United National Party (Unp), che ha governato un Paese in default, chiedendo un prestito al Fondo monetario internazionale. Fino alla clamorosa vittoria del 21 settembre, appunto, di Dissanayake.
Questi, classe 1968, si è affermato con il 42% dei consensi. È il leader, come dicevamo, di Jvp, un partito che, nei tanti appuntamenti elettorali sparsi nel Paese, ha esibito cartelloni con il volto di Karl Marx e la falce e il martello. Resosi protagonista negli anni Settanta e Ottanta di diverse campagne insurrezionali, il Jvp è si è trasformato gradualmente in una coalizione denominata National People’s Power (Npp), che Dissanayake ha reso, nel tempo, un partito progressista. Secondo Tiziano Marino – analista di Asia e Pacifico presso il Centro studi internazionali – “la Npp si è imposta grazie a una campagna elettorale incentrata sul tema della lotta alla povertà crescente, attraverso proposte come l’aumento della soglia di esenzione dall’imposta sul reddito e l’eliminazione dell’Iva su prodotti sanitari e alimentari, oltreché alle promesse di lotta senza quartiere alla corruzione strutturale insita nel sistema srilankese. Nel complesso – aggiunge Marino – il voto è apparso come una sorta di referendum sul governo e sulle condizionalità imposte dal Fondo monetario internazionale. Non a caso i candidati più votati, ossia Dissanayake e Premadasa, si sono distinti per le forti critiche nei confronti delle misure di austerità imposte dall’ex presidente Wickremesinghe, come l’eliminazione dei sussidi sull’elettricità”.
I primi evidenti segnali di rottura con il passato hanno riguardato la scelta del primo ministro, nella persona di Harini Amarasuriya, sociologa, attivista sindacale in ambito universitario, che ricopre ad interim i dicasteri della Giustizia, della Salute, delle Donne, dell’Istruzione, del Commercio e dell’Industria. E la scelta del governatore della provincia occidentale più popolosa del Paese, il musulmano Hanif Yousuf: un monito all’antislamica maggioranza buddista. Inoltre, il capo dello Stato ha sciolto il parlamento e indetto nuove elezioni per il 14 novembre.
Come le precedenti presidenze, anche questa dovrà fare i conti con l’andamento dell’economia. “Il Paese, non è più in crisi – sottolinea Marino – ma comunque lontano da una condizione di stabilità. Infatti, malgrado l’azione della presidenza Wickremesinghe abbia facilitato la stabilizzazione dell’inflazione e della rupia, i salari reali sono ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, mentre il tasso di povertà è raddoppiato negli ultimi anni”. Per avere a disposizione delle risorse sufficienti a risolvere questo problema, il nuovo governo potrebbe spostare sui creditori esterni il peso delle difficoltà economiche. “Tuttavia – aggiunge il ricercatore – lo Sri Lanka ha già effettuato importanti ristrutturazioni del debito con la ex Im Bank cinese, e con altri creditori quali India e Giappone, e dunque non è ancora chiaro quale sia l’effettivo spazio di manovra del nuovo governo”.
Nell’isola sono tuttora pesanti le conseguenze del lunghissimo conflitto con i Tamil. “Il Paese – denuncia l’associazione internazionale Oxfam – non ha ancora superato le fratture e i danni causati dalla guerra civile, laddove la provincia settentrionale resta ancora esclusa dal trend di sviluppo generale, con numerose vedove di guerra e sfollati interni in condizioni di vulnerabilità”. In alcuni distretti, in cui l’economia è prevalentemente agricola, si registrano i più alti tassi di povertà: il 20,8% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Ma rispetto al problema dei Tamil, che resta sullo sfondo come spauracchio per la stabilità della nazione, lascia ben sperare il consenso che questi hanno dato al nuovo presidente. Del resto, la pace è necessaria per mantenere stabili relazioni con l’India – che ha sempre avuto rapporti ambivalenti con i Tamil – e la Cina, che ha investito nel Paese ingenti somme. Pechino potrebbe infatti prendere in considerazione l’isola come una delle componenti della “via della seta”. L’ingresso dello Sri Lanka in questo progetto potrebbe metterlo, in una certa misura, al riparo dalla rapacità degli organismi finanziari ed economici internazionali, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, che certamente non guardano con favore all’arrivo della falce e martello a Colombo.