
Si deve a Juan Domingo Perón se in Argentina l’istruzione superiore pubblica è gratuita dal 1949, essendo riuscita nel tempo a diventare un simbolo di prestigio e di mobilità sociale, riconosciuto unanimemente nel Paese. I lavoratori e i gruppi sociali a basso reddito hanno potuto accedere alle università pubbliche, e la qualità e la gratuità dell’insegnamento impartito hanno rappresentato un forte richiamo per schiere di studenti provenienti da altri Paesi latinoamericani. Era allora facilmente prevedibile che la strada imboccata da Javier Milei, impegnato a distruggere il sistema educativo in nome di una politica di tagli che sta stremando l’intero Paese, trovasse un’opposizione proprio nel vasto arcipelago dell’educazione superiore, spingendo all’unità il mondo dei docenti e degli studenti.
Se lo scorso aprile una forte mobilitazione a favore dell’istruzione pubblica aveva riunito mezzo milione di persone in Plaza de Mayo, davanti alla Casa Rosada, consentendo di sventare parzialmente il taglio dei fondi, e solo una settimana fa, trecentomila persone avevano marciato a Buenos Aires, ora la protesta dilaga nuovamente nelle piazze per il veto che Milei ha posto alla legge con la quale l’opposizione era riuscita a garantire un aggiornamento delle risorse per il settore, che vede la presenza di circa due milioni di studenti. In Argentina, il veto è un’attribuzione che corrisponde al potere esecutivo, con la quale il presidente può respingere in tutto o in parte i progetti approvati dal Congresso della nazione, a cui è comunque riconosciuto il potere di invertire la decisione presidenziale con una maggioranza qualificata. Cioè con i due terzi dei voti dei presenti. In questa occasione, Milei è riuscito ad aggiungere al voto dei suoi 38 deputati (di La Libertad avanza) quello dei 35 del Pro, il partito dell’ex presidente Mauricio Macri. Così ha imposto il suo veto all’aumento delle risorse e degli stipendi degli insegnanti, che, secondo la federazione dei sindacati universitari (Conadu), hanno perso il 23,7% del loro potere di acquisto a causa dell’inflazione, tra il novembre 2023 e l’agosto 2024.
Se ha impedito all’opposizione di mantenere in vigore la norma, il risultato del voto – un indubbio successo per l’esecutivo –, ha reso tuttavia evidente la dipendenza del presidente anarco-liberista da Mauricio Macri, che l’ha sostenuto in nome della governabilità e dell’equilibrio fiscale. Un obiettivo che il governo sta pervicacemente perseguendo, anche a costo di mandare in recessione l’economia. Non una novità, visto che, già il mese scorso, Macri è andato in soccorso di Milei quando si è trattato di salvare il veto presidenziale contro una legge, pure questa approvata dall’opposizione, che sanciva un aumento dell’8% ai pensionati. Peraltro omaggiati con manganellate e lanci di gas lacrimogeni, quando sono scesi in piazza a protestare.
E mentre Macri va già all’incasso, sostituendo con una persona a lui vicina il ministro dell’Energia, che si è dimesso, a nulla sono valse a far cambiare opinione al presidente argentino le forti pressioni pervenutegli dal mondo universitario. Prima di tutto, da parte del rettore dell’Universidad de Buenos Aires, Ricardo Gelpi, che ha denunciato che il sistema universitario argentino “può cessare di esistere come lo conosciamo oggi”, dato che il suo modello gratuito, di massa e di eccellenza, risulta a rischio “come mai prima d’ora nella storia democratica” del Paese. Poi dall’organismo che riunisce i rettori delle università pubbliche, con la denuncia che il 70% degli stipendi degli insegnanti e dei non insegnanti si situa al di sotto della soglia di povertà, e che i contributi statali agli atenei hanno visto una diminuzione del 30%, da quando Milei ha assunto la presidenza. Mentre sono cessati gli investimenti in ricerca, scienza e tecnologia, la somma destinata dal governo al settore, nel bilancio 2025, è la metà di quella che i rettori avevano richiesto, tenuto conto che la proposta del Consiglio interuniversitario nazionale chiedeva di aumentare le risorse per l’istruzione pubblica superiore di due miliardi di pesos.
Milei ha spiegato che il motivo del controverso veto è quello di preservare l’equilibrio fiscale. Tuttavia, l’Ufficio di bilancio del Congresso ha recentemente stimato che la legge avrebbe avuto un impatto di bilancio equivalente allo 0,14 del prodotto interno lordo: poca cosa, che non avrebbe influito più di tanto sui conti pubblici.
A questo punto, bisogna citare il freschissimo rapporto dell’Osservatorio degli argentini per l’educazione, secondo il quale, quest’anno, gli investimenti nazionali nell’istruzione sono diminuiti del 40% rispetto al 2023. L’entità del taglio applicato al sistema educativo risulta essere quasi il doppio del taglio generale della spesa pubblica nazionale, pari al 21,1%. Ne consegue che, quello dell’istruzione, è stato il settore che ha subito la sforbiciata maggiore rispetto al resto dello Stato, e non c’è alcuna speranza che la tendenza sia invertita nel 2025. A passarsela peggio, è stata l’istruzione di base, mentre il taglio applicato quest’anno all’intero settore non ha precedenti comparabili nei quarant’anni di democrazia. Una riduzione simile ci fu solo nel 1992, con il trasferimento delle scuole secondarie dall’orbita nazionale alle province, nel quadro di una riforma strutturale dello Stato. L’aggiustamento nazionale dell’istruzione del 2024 è maggiore di quello effettuato durante le peggiori crisi economiche degli ultimi decenni, come nel 1989 (con un aggiustamento dell’istruzione nazionale del 24%) o nel 2002 (con un adeguamento del 15%).
In risposta al veto presidenziale, il 17 ottobre, i sindacati dell’università hanno indetto uno sciopero generale, e in tutto il Paese sono in corso occupazioni di facoltà, scioperi, assemblee e lezioni pubbliche in strada. Mentre si teme la fuga dei docenti dalle università pubbliche verso istituti privati o all’estero, al momento non è dato sapere l’effetto che lo scontro in atto potrà avere sul gradimento del governo.
In carica dalla fine di dicembre, Milei ha cominciato a risentire degli effetti di disillusione che la sua cura economica ha prodotto negli argentini. Pur godendo ancora di un appoggio valutato attorno al 40%, per la prima volta la destra cui ha dato vita esce dai sondaggi recenti con un’immagine più negativa che positiva. Per lui il gradimento scende addirittura di dodici punti rispetto al 54% del maggio scorso, quando era riuscito ad abbassare l’inflazione mensile dall’8,8% al 4,2%. Il risultato positivo aveva probabilmente fatto passare in secondo piano, agli occhi degli argentini, gli effetti dei dolorosi tagli operati, accettati in vista di quel salto in su – a “V” – che l’economia, nelle assicurazioni del presidente, avrebbe presto realizzato. Così, in attesa di una ripresa economica ancora ben lungi dall’arrivare, secondo l’istituto di sondaggi Escenarios, in ottobre Milei scende al 42% di popolarità, toccando il fondo della discesa iniziata nei mesi scorsi.
Se già questa è una cattiva notizia, per lui, risulta ancora più grave il fatto che il presidente non dispone di una struttura di peso a livello parlamentare e territoriale, vista l’evanescenza del partito della Libertad avanza, la formazione che lo ha portato al successo. Con questi chiari di luna, rimane allora del tutto aleatoria la possibilità di un suo rafforzamento, che possa derivare dal rinnovo parziale del parlamento nel 2025.
Così, di fronte alla reazione che nel Paese si sta delineando, Milei ha dovuto correre ai ripari, affermando che “non è in discussione” l’università pubblica e gratuita, quanto piuttosto che essa è attualmente esclusa da controlli da parte dell’esecutivo sul modo di spendere, insistendo sul fatto che le autorità universitarie devono rendere conto. Una richiesta che sembra andare nel senso dei due piccioni con una fava, dato che unirebbe le ragioni della stretta di bilancio con la fine dell’autonomia del mondo dell’istruzione superiore e della ricerca. Si sprecano le accuse al mondo della formazione, rivolte da Milei in passato, di essere appannaggio della sinistra. E spiegano anche, al di là delle ragioni contabili, il suo desiderio di controllo.
Intanto, martedì 15 ottobre, la procura del Tesoro ha stabilito che il Sindacato generale della nazione (Sigene), un organismo dipendente dall’esecutivo, può controllare le università, una funzione delegata per legge all’Audit generale della nazione (Agn), dipendente dal Congresso. Poiché la decisione si scontra con l’autonomia universitaria, è probabile che la sua applicazione sarà oggetto dell’attenzione dei tribunali. Nel frattempo, Milei ha festeggiato, commentando che “saremo in grado di controllarli, i ladri sono in pericolo”. E per la gioia dei suoi fan, che si aspettano che faccia sfracelli dei privilegiati che hanno rubato e ridotto alla fame il Paese, il presidente ha sostenuto che “l’università pubblica nazionale oggi non serve a nessuno se non ai figli della classe superiore, ai ricchi e alla classe medio-alta”, e che “il mito dell’università gratuita diventa un sussidio dei poveri verso i ricchi, i cui figli sono gli unici che arrivano all’università”. Pur essendo ampiamente smentito dai dati ufficiali, il presidente è andato ripetendo che “l’università pubblica è un sussidio dei poveri verso i ricchi”. E così ha incluso l’università pubblica nella casta che intende sbaragliare. In una sua recente apparizione televisiva, Milei, com’è suo costume, ha rincarato la dose, affermando che coloro che rifiutano di essere controllati sono dei ladri. Mentre il braccio armato dell’esecutivo, rappresentato dalla ministra degli Interni, Patricia Bullrich, ha accusato gli studenti universitari di “generare una rivolta e cercare di destabilizzare” il governo, volendo fare quello che gli studenti fecero in Cile nel 2006.
Intanto le proteste universitarie si stanno espandendo a macchia d’olio, e, dopo Buenos Aires, hanno coinvolto, tra le altre, le università nazionali di La Plata, Rosario, Córdoba, Quilmes, La Matanza, Moreno, Mar del Plata, La Pampa, Salta, San Luis, Jujuy, e Tucumán. Mercoledì 16 ottobre, in migliaia, si sono mobilitati contro i tagli, con quella che sarà ricordata come la “marcia delle candele”, durante la quale studenti e lavoratori reggevano una lunga bandiera argentina con la scritta “Unità per l’istruzione pubblica”. Un’iniziativa che rientra nel piano di lotta deciso dal mondo dell’università, che ha visto blocchi stradali in diversi punti di Buenos Aires, con l’epicentro delle proteste in Plaza Houssay, da dove è iniziata la marcia che si è diretta al Palazzo Pizzurno, sede dell’ex ministero dell’Istruzione, abolito da Milei.
Lunedì e martedì prossimi, ci sarà uno sciopero di quarantott’ore; dal 23 ottobre saranno organizzate lezioni pubbliche a mezzogiorno, a tempo indeterminato, di fronte alla sede del Congresso a Buenos Aires. Iniziative simili coinvolgeranno contemporaneamente tutte le università nazionali. Finora, le manifestazioni si sono svolte senza violenze. Anche le proteste con le lezioni pubbliche, presso la facoltà di Scienze economiche e Psicologia, che hanno avuto momenti di tensione con la polizia della capitale, mobilitata in operazioni di prevenzione per sgomberare i blocchi stradali, non hanno registrato incidenti.