Sono passati sufficienti giorni e notti per poter andare al cinema sereni. L’euforia festivaliera di Venezia si è spenta da tempo, e con essa anche i toni trionfalistici usati da chi si era convinto di avere visto un capolavoro. Certi autori non si toccano. Anche chi non era proprio così convinto, ha finito evidentemente col soccombere, magari per stanchezza, per sfinimento: il clamore mediatico, l’enfasi dell’auto-narrazione amplificata da mille altoparlanti possono produrre strani effetti allucinatori. Serenamente, si va dunque al cinema, pagando il biglietto. E mentre la pellicola scorre davanti ai nostri occhi, ritornano in mente, come schegge impazzite, i paragoni con Rossellini e Antonioni, le paginate di encomi sul coraggio antibellico dell’autore. L’opera in questione è Campo di battaglia di Gianni Amelio.
Prima guerra mondiale, in un campo militare del Friuli due ufficiali medici si confrontano quotidianamente con i corpi martoriati dei soldati che arrivano dal fronte. Mentre Stefano (Gabriel Montesi) legge ovunque segni di impostura e simulazione, e fa di tutto per rispedire i feriti sul campo di battaglia, Giulio (Alessandro Borghi) cerca di aiutare gli infelici a non tornare in guerra. In mezzo, una giovane infermiera (Federica Rosellini), apparentemente contesa tra i due uomini, oscillante tra un non troppo convinto patriottismo e il desiderio di stare dalla parte dei deboli.
Il punto di partenza è un libro poco conosciuto di Carlo Petrarca, La sfida. Nel romanzo, i due uomini non si incontrano mai. Amelio invece li fa fisicamente incontrare, ma senza che questo provochi una qualche conseguenza sul piano emozionale e narrativo. La zoppicante sceneggiatura non facilita di certo la sfida tra i due interpreti, costretti a ripetere battute innocue, didascaliche. L’unico motivo d’attrazione di questo film oleografico, finto, inferiore a molte serie televisive, è Alessandro Borghi che, nonostante l’inconsistenza della storia, è riuscito a inventare una fissità perturbante, un sorriso obliquo, un piano d’ascolto tutto suo che potrebbe però, a dire il vero, adattarsi anche a un’altra situazione.
Il fatto è che in Campo di battaglia non c’è una vera e propria “situazione”, ma solo una gigantesca didascalia diluita in 104 minuti. La tensione non si presenta in scena neanche con la sua ombra. Gabriel Montesi, come deuteragonista, sembra poco verosimile, ma la sua aleatorietà potrebbe anche dipendere dalla vacuità delle battute che gli sono destinate. Per quanto riguarda Federica Rosellini, una delle figure più vibranti della scena teatrale italiana (scrive, recita e dirige se stessa), si conferma anche una brava attrice cinematografica.
In Campo di battaglia a mancare è proprio la battaglia, la sfida, il conflitto. Il messaggio (per forza condivisibile, quindi inerte) si mangia tutto, soddisfatto di sé. Quanto all’assunto automatico propagandato dallo stesso autore e riverberato all’infinito su tutti i mezzi di diffusione di massa – “racconto la prima guerra mondiale per parlare delle guerre contemporanee” –, va ricollocato nel posto giusto: l’orda festivaliera che azzera ogni atto linguistico, sacrificando continue offerte votive alla macchina del consenso.