I risultati dei test Invalsi (test nazionali di valutazione) 2023-2024 marcano la distanza tra il Nord e il Sud nel sistema scolastico italiano. Da un’analisi pubblicata sul “Sole 24 Ore”, lunedì 14 ottobre, emerge (ed è più o meno la stessa considerazione che si fa tutti gli anni) come un ragazzo del Sud Italia su due, al termine del primo o del secondo ciclo di istruzione, non raggiunga il livello minimo di competenze (livello 3) in italiano e matematica. A guardare il dettaglio di ogni provincia, le differenze si fanno ancora più nette. In alcune province del Sud, la percentuale di studenti al di sotto del livello minimo supera il 60%. Il divario più accentuato in matematica. Da sempre. Ma chi parla e racconta degli esiti degli Invalsi, ha mai visto le prove? Sa di cosa si parla? Qualcuno ha visto cosa deve riuscire a fare un quattordicenne in italiano in 75 minuti, dopo averne trascorsi altri 75 a decifrare il test di matematica?
Negli ultimi anni, gli esiti degli Invalsi sono diventati un argomento di dibattito acceso – ma sterile – tra genitori e politici. Mentre i dati, i grafici e le tabelle si susseguono, la questione fondamentale rimane: a cosa servono realmente questi risultati? Le prove Invalsi, concepite per misurare le competenze degli studenti in italiano e matematica, sembrano spesso più un esercizio di stile che uno strumento utile.
Se anche al Nord i risultati degli Invalsi restituiscono un peggioramento, cosa significa questo? Che la didattica non funziona? Tradotto per chi non pratica il linguaggio pedagogico, il modo di fare lezione, di stare in classe.
Le prove standardizzate, applicate a tutti indipendentemente dai livelli di conoscenza e dai contesti sociali e culturali delle scuole, servono solo a confermare l’ovvio, cioè le significative differenze nei processi di apprendimento. Sciorinare dati senza considerare il contesto educativo e sociale, in cui gli studenti operano, rischia di offrire una visione distorta della realtà. Questi risultati non tengono conto delle diverse realtà scolastiche, delle risorse disponibili e delle sfide specifiche che ogni istituto affronta. Non è possibile somministrare prove uguali su tutto il territorio nazionale.
L’ossessione per la valutazione standardizzata è un fenomeno evidente a chi lavora nel campo dell’insegnamento, costretto a seguire schemi ministeriali poco adatti alla realtà delle classi. Spesso ci si domanda quanto di ciò che si scrive, nella pedagogia moderna, possa essere realmente applicato nella realtà scolastica. Il divario tra ciò che questi test “valutano” e ciò che la didattica sempre più richiede – e cioè personalizzazione e attenzione ai bisogni di ognuno – è così abissale da creare solo spaesamento, disorientamento, incomprensione, e quindi disamore, disimpegno, rabbia. Nella mia esperienza ho trovato difficoltà e frustrazione con i test Invalsi, che a volte sembrano più trabocchetti pensati per indurre in errore che strumenti di valutazione. Una prova strutturata non può realmente ambire all’oggettività, poiché ogni criterio di valutazione limita inevitabilmente il campo di osservazione.
C’è qualcosa di disumano sotto il cielo della nostra scuola. C’è qualcosa che, prima o poi, qualcuno dovrà rivisitare. Si chiama approssimazione. Si chiama superficialità. Si chiama delirio misurativo. Si chiama culto del punteggio, del numero e del risultato. Sarebbe auspicabile che le formatrici e i formatori Invalsi, si riunissero con dieci docenti di italiano del primo ciclo e del secondo ciclo, e quindici studenti “bravi”. Tutti attorno a un tavolo. A discutere, approfondire, capire e provare a tornare, forse, con i piedi per terra. Fare un lavoro serio, fatto con una ratio. Non sarebbe difficile, ci vorrebbe la volontà di farlo.
Gli studenti non possono affrontare le cose in modo procedurale, perché dovrebbero capire che la vita stessa, in sé, non è procedurale, e che anzi richiede discernimento e una buona dose di improvvisazione. Le procedure ti rendono fruitore passivo di una esperienza preconfezionata. Penso che da questi pochi assunti occorra procedere senza essere dogmatici, restituendo ai docenti la facoltà di valutare, abbandonando la pretesa di una obiettività utopistica, accollandosi il rischio della parzialità e tenendo conto del fatto che, quando ciascuno di noi valuta una persona che ha davanti, cerca di ripercorrerne tutta la storia e non si basa solo sull’ultima affermazione che ha fatto.
Dopo anni, il rito degli Invalsi mostra sempre più crepe, contraddizioni e assurdità. Rispetto per i tempi, attitudini dei propri studenti, trasmissione della passione per la materia e coinvolgimento nello studio, sono aspetti importanti, che non possono essere quantificati. Ma le domande rimangono: a cosa servono realmente queste prove? Chi ne beneficia? Si spendono milioni di euro senza un chiaro obiettivo.
Bisogna fermarsi.Bisognerebbe avviare un dibattito pubblico onesto su quale modello scolastico sia necessario per sostenere una democrazia sana nel Ventunesimo secolo. Se gli Invalsi sono un termometro che segnala la febbre, allora il ministro deve trovare una cura: alcuni consigli da cui partire si chiamano più scuola, più formazione e più retribuzione per insegnanti, meno studenti per classe, più lettura, più teatro, più cinema, più scrittura, più dibattiti e più laboratori scientifici. Nel processo di apprendimento, bisogna andare oltre l’“io” del docente e il “tu” dell’allievo per produrre un fertile “noi”, all’interno del quale si realizzi la formazione della persona umana pluridimensionale. La scuola dovrebbe dare a tutti le stesse opportunità e fornire la leva dell’emancipazione, una chiave del famoso ascensore sociale. Vi lascio in dote tutto quel che avete studiato, ci hanno detto i nostri nonni. Non soldi, non imprese, non case – ma sapere per costruire. E noi, cosa ne stiamo facendo?