All’Assemblea nazionale francese, martedì 8 ottobre, è stata votata la mozione di sfiducia (detta “di censura”) nei confronti del governo Barnier presentata dalle sinistre. Il risultato è stato di 197 voti a favore, cinque in più rispetto al numero dei deputati dei quattro gruppi parlamentari del Nuovo fronte popolare, ma molto lontano dai 289 necessari per far cadere il governo. Del resto la cosa era prevista (vedi qui): solo la convergenza su un’unica mozione delle sinistre e dell’estrema destra potrebbe riaprire i giochi e condurre, se non proprio alle dimissioni di Macron, almeno a un riposizionamento del blocco centrista, oggi alleato con la destra ex gollista. Barnier quindi ha semaforo verde. Così, pochi giorni dopo, ha presentato il suo piano per raddrizzare i conti pubblici.
Ci saranno delle tasse e dei tagli. Barnier scontenterà un po’ tutti. In primo luogo i centristi macroniani, che della riduzione del carico fiscale sulle imprese e sui più ricchi avevano fatto il loro mantra (con lo slogan della “politica dell’offerta”); questi dovranno sorbirsi una reintroduzione della patrimoniale (sopra i cinquecentomila euro di reddito, a quanto pare) e un aumento dell’imposizione fiscale qua e là, pur di non mettere in difficoltà un governo che per loro è quasi un’ultima spiaggia. Anche la destra ex gollista, con soltanto quarantasette deputati miracolosamente di nuovo al governo, non potrà piantare grane. E Barnier, privo com’è di una maggioranza – avendone solo una relativa, un pugno di voti in più rispetto a quelli delle sinistre –, potrà contare sul codicillo che permette al governo di far passare una legge, anche quella di Bilancio, senza un voto in parlamento: esempio macroscopico di come il sistema istituzionale francese sia una fogna.
In Italia, invece – Paese in cui la democrazia parlamentare, pur guastata da una legge elettorale pasticciata, è però ancora l’essenza della Repubblica –, le destre al governo, forti di una maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato, si preparano, come proclamano, a non aumentare le tasse. Ci saranno, per meglio dire, tagli alla spesa pubblica più che un aumento della pressione fiscale – e quest’ultima soprattutto del tipo indiretto, come le accise sui carburanti. Più o meno il contrario di quanto si prospetta in Francia, dove l’austerità sarà un po’ compensata facendo pagare i più ricchi.
Si misura qui, nel paradiso italiano (sembra che anche dall’estero i ricconi stiano arrivando nel nostro Paese, attirati dagli scarsi oneri fiscali, come fino a qualche anno fa avveniva in Portogallo), la differenza che corre tra un esecutivo liberal-conservatore, come quello francese, e quello nostrano, che è un governo delle destre populiste. Ci sono i postfascisti, convertiti al neoliberismo e all’atlantismo (vedi qui e qui), che si presentano come i difensori della nazione ma in realtà si preparano a svenderla con un’ulteriore ondata di privatizzazioni; c’è un’estrema destra leghista, che finge propagandisticamente di volere una tassa sugli extra-profitti delle banche; e in mezzo i furbetti forzitalioti, che dicono “mai e poi mai nuove tasse”, facendo gli interessi dei padroni berlusconidi. Bell’accrocchio, non c’è che dire.
È in sintonia con questo contesto paradisiaco la logica riguardante il premierato, che – con un rafforzamento dell’esecutivo, nel senso di dare maggiori poteri alla presidenza del Consiglio con l’elezione diretta – cambierebbe profondamente la natura di una democrazia parlamentare già sottoposta a pressioni demagogiche (puramente elettoralistiche) e populistiche (nel senso della vuota retorica nazionalista). Un disegno dai contorni per nulla nitidi, nato da uno scambio sull’autonomia regionale differenziata e dalla rinuncia al proposito presidenzialista iniziale, e soprattutto un’indigeribile pietanza, sottoposta per fortuna al passaggio per un referendum costituzionale, attorno a cui dovremo mobilitarci con tutte le nostre forze.