Nel nostro precedente intervento su “terzogiornale” (vedi qui), parlavamo dei tre conflitti che coinvolgono il Medio Oriente da quasi tre quarti di secolo: il conflitto locale tra Israele e i palestinesi, quello regionale tra lo stesso Israele e gli altri Stati del Medio Oriente (non solo quelli arabi, ma anche e soprattutto l’Iran, a partire dal 1979, quando si è installata la Repubblica islamica) e quello internazionale, che vede come primi attori gli Stati Uniti, da un lato, e la Russia dall’altro, con i loro alleati o fiancheggiatori, e che quindi coinvolge anche noi. I tre conflitti sono indissolubili, in quanto l’uno può sfociare nell’altro: quello locale si è spesso tradotto in regionale, e quest’ultimo minaccia di diventare internazionale, non soltanto, purtroppo, nella forma di guerra fredda. In quest’ultima settimana, il conflitto internazionale sembra essersi trovato in un momento di stasi: l’attacco israeliano all’Iran, ritenuto imminente, non si è finora realizzato, ma continua a sembrare probabile, ed è anzi auspicato da molti, come vedremo alla fine di questo articolo. Il conflitto locale si è invece ormai completamente trasformato in conflitto regionale, con l’escalation in Libano, nel corso della quale si sono verificati attacchi anche alle truppe della missione Unifil, compreso il contingente italiano.
Quali i motivi di questa aggressione israeliana (perché è proprio il caso di chiamarla così)? Secondo molti analisti, principalmente due: uno propagandistico, cioè impedire che le truppe Unifil testimonino sull’uso da parte dell’esercito israeliano di armi esplicitamente vietate dalle convenzioni internazionali (bombe al fosforo); l’altro militare, cioè sbarazzarsi di alcuni ostacoli nell’avanzata verso nord, volta a distruggere Hezbollah. Questi motivi sono entrambi credibili e perfettamente comprensibili; non vorremmo però soffermarci su di essi, quanto sull’atteggiamento generale dello Stato ebraico, che non ha avuto alcuna esitazione ad attaccare un contingente Onu, cioè dell’istituzione il cui scopo è proprio quello di risolvere pacificamente i conflitti tra i vari Paesi.
Il fatto è che l’Onu rappresenta ormai, per Israele come pure per alcuni suoi più accesi sostenitori nei Paesi occidentali, un fastidioso ostacolo. Ne è una prova il fatto che è stato definito “palude antisemita” da Netanyahu, nel suo discorso all’Assemblea generale, e un’affermazione simile è stata ripetuta (senza citazione esplicita, ma l’allusione era chiarissima) dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, in occasione della cerimonia di commemorazione delle vittime del 7 ottobre 2023 (“Le organizzazioni internazionali che dovrebbero essere super partes si sono fatte cassa di risonanza dei più biechi pregiudizi antisemiti, usando due pesi e due misure”).
Negli stessi giorni, il governo israeliano ha dichiarato “persona non grata” il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, colpevole di “non aver condannato l’odioso attacco missilistico dell’Iran su Israele”. Alle gravi affermazioni di Netanyahu, come pure alle altre simili, la maggior parte dei leader e dei commentatori occidentali non ha replicato; forse il bombardamento iraniano su Israele è stato “odioso”, ma che dire dell’attacco di Israele al consolato iraniano di Damasco dell’aprile scorso, o dell’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, uno dei capi di Hamas? Non si sarà trattato di azioni “odiose”, ma comunque di violazioni del diritto internazionale. La timidezza, se non l’assenza, di reazioni alle affermazioni (e alle azioni) dei leader israeliani si spiega, a nostro parere, con l’accusa sempre pendente di antisemitismo, che è ormai quasi impossibile respingere, perché “chi la respinge lo fa proprio perché è antisemita”. Si tratta di un circolo vizioso da cui, a quanto pare, è molto difficile uscire (o comunque non si ha voglia di farlo). Dato il clima, non stupisce che l’esercito israeliano abbia potuto attaccare senza problemi la missione Unifil (le scuse più tardi accampate di “possibili errori nella catena di comando” sembrano davvero artificiose): se l’Onu è antisemita, perché lo Stato ebraico dovrebbe avere scrupoli ad attaccare le truppe da esso inviate?
Questa volta la reazione di vari Paesi occidentali è apparsa decisa. Molti (a cominciare dal nostro ministro della Difesa, Guido Crosetto) hanno parlato di violazioni del diritto internazionale. Francia e Spagna hanno convocato l’ambasciatore israeliano; e lo stesso ha fatto l’Italia, sia pure a un livello, per così dire, minore: l’ambasciatore è stato infatti convocato dal ministro della Difesa, anziché, come sarebbe prassi, dal ministro degli Esteri.
Meno decisa, invece, almeno in un primo momento, è stata la reazione degli Stati Uniti, che del resto sono già da vari anni secondi solo a Israele nella svalutazione del ruolo dell’Onu. È vero che l’impotenza di questa organizzazione si è rivelata, già da decenni, in modo sempre più drammatico: ma la causa di questa crisi sta in buona parte nel comportamento dell’Occidente, che ha spesso compiuto azioni militari senza autorizzazione dell’Onu: tra i vari esempi, si possono citare l’attacco alla Serbia nel 1999 e quello all’Iraq nel 2003. Anche in questo caso, si tratta di un circolo vizioso: proprio gli Stati che sono i primi a denunciare l’impotenza dell’Onu sono anche i primi a causarla.
Lasciando da parte l’evolversi della situazione in Libano e a Gaza, di cui comunque non si intravedono finora segni di una possibile evoluzione in senso positivo, interroghiamoci su quali possano essere gli sviluppi futuri del conflitto internazionale, la cui miccia è evidentemente costituita dalla possibile trasformazione del conflitto regionale in una guerra aperta tra Israele e l’Iran. I notiziari sono pieni, in questi giorni, degli inviti a Israele, da parte di Biden e dell’amministrazione statunitense, di limitarsi a colpire, in caso di attacco, solo obiettivi militari, ma non siti nucleari e petroliferi. Quindi, un attacco israeliano all’Iran sembra dato per scontato dagli Usa; l’unica incertezza non riguarda il “se”, ma il “quando” ed eventualmente il “come”.
A partire dal 7 ottobre dell’anno scorso, Netanyahu non sembra avere tenuto molto in conto questi consigli di “moderazione”: sembra piuttosto difficile che lo faccia ora; del resto, anche un attacco ai soli obiettivi militari scatenerebbe una guerra tra lo Stato ebraico e la Repubblica degli ayatollah. La domanda fondamentale è dunque questa: gli Stati uniti e i loro alleati sono a favore o contro questa guerra, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero dal punto di vista internazionale (possibile coinvolgimento di Russia, Cina, ecc.)? Se veramente non volessero che scoppiasse, fermerebbero le loro forniture di armamenti a Israele, cosa che finora Biden non ha fatto e che neppure il prossimo presidente, che sia Donald Trump oppure Kamala Harris, sembra avere la minima intenzione di fare. Al contrario (e questo dimostra una volta tanto un distanziamento di alcuni Paesi europei dalle posizioni americane), il francese Macron e lo spagnolo Sánchez hanno diramato, dal vertice di Cipro dell’11 ottobre, questa dichiarazione (silente, invece, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni): “Bisogna cessare la vendita di armi a Israele, unica leva per mettere fine ai conflitti”.
Di fatto, sono molti, almeno negli Stati Uniti, a volere una guerra tra Israele e l’Iran. Sul supplemento al “Corriere della sera” (venerdì 11 ottobre), si può leggere un estratto dall’editoriale di Bret Stephens sul “New York Times”, in cui si afferma tra l’altro: “L’Iran rappresenta una minaccia del tutto intollerabile non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti e per ciò che resta dell’ordine internazionale liberale che dovremmo guidare. Non possiamo continuare a cercare di ostacolare l’Iran solo con mezzi difensivi, combattendo non per vincere ma semplicemente per non perdere”. Stephens viene definito “editorialista conservatore americano”. Tuttavia, il fatto che frasi del genere siano pubblicate dal più diffuso e autorevole quotidiano liberal degli Stati Uniti, e forse del mondo intero, dovrebbe farci riflettere (e preoccupare).