Mezzo secolo fa, Noam Chomsky (Riflessioni sul Medio Oriente, 1974) osservava che nel Medio Oriente erano in gioco tre tipi di conflitti: uno locale, tra gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi; uno regionale, tra Israele e i Paesi arabi; e uno internazionale, per il controllo delle fonti di energia. Questo quadro, a grandi linee, è ancora valido: il conflitto locale persiste; e, dato che è incominciato nel 1948, con la fondazione dello Stato di Israele, dura ormai da tre quarti di secolo: dunque si sta avvicinando al record della guerra più lunga che si ricordi, ossia quella cosiddetta “dei cento anni” (in realtà, 116), combattuta tra Francia e Inghilterra nel XIV e nel XV secolo.
Come tutti i conflitti pluridecennali, anche quello israelo-palestinese ha alternato fasi acute, cioè di guerra aperta, ad altre di sostanziale non-belligeranza (lasciando da parte le azioni terroristiche). Le precedenti fasi acute non sono durate più di qualche mese, come la guerra del 1948, che si concluse nel gennaio 1949; e la “guerra di Suez” dell’autunno 1956, la guerra “dei sei giorni” del 1967 e la “guerra del Kippur” del 1973 non superarono le tre settimane. La fase acuta attuale, invece, ha avuto inizio il 7 ottobre di un anno fa, e nessuno può prevedere quale sarà il suo esito: c’è anche la possibilità che finisca tra poco, ma purtroppo non nel modo migliore, tanto per le due parti direttamente coinvolte, quanto per il mondo intero.
Torniamo allora agli altri due conflitti, che, essendo conseguenze del primo, ne sono indissolubili, come lo sono tra loro. Il quadro del conflitto regionale, rispetto a cinquant’anni fa, è mutato per l’ingresso di un nuovo attore, cioè l’Iran, che allora, sotto il governo dispotico dello scià, era un fedelissimo alleato dell’Occidente, ma, dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, ne è diventato uno dei più feroci avversari, com’è diventato il nemico più pericoloso di Israele. (Sulle responsabilità oggettive degli Stati Uniti nel cambio di regime in Iran ci sarebbe molto da scrivere: sinteticamente, se non avessero sempre appoggiato lo scià, e boicottato i suoi avversari laici, l’ostilità popolare nei confronti della monarchia non si sarebbe coagulata intorno a Khomeini, e forse l’Iran avrebbe conosciuto una storia diversa. Limitiamoci però a considerare le conseguenze della nascita della repubblica islamica in Iran sul conflitto regionale in Medio Oriente).
Chomsky, si è detto, lo definiva come un conflitto tra Israele e i Paesi arabi: sarà bene ricordare (forse non per i lettori di “terzogiornale”, ma per molti media, che sembrano ignorare la differenza) che l’Iran non è un Paese arabo, come non lo è la Turchia. Iran e Turchia sono Paesi musulmani (a larghissima maggioranza): ed è questo che li fa sentire sempre più vicini agli arabi palestinesi, con i quali, in passato, non avevano avuto rapporti particolarmente buoni (soprattutto la Turchia ottomana). Viceversa, non tutti gli arabi palestinesi sono musulmani, molti di loro sono cristiani, compresi alcuni dei loro leader (per esempio, George Habash, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, era di religione greco-ortodossa). Si tratta di differenze importanti: mentre fino a qualche decennio fa il conflitto regionale era sostanzialmente su base etnica (israeliani contro palestinesi, questi ultimi appoggiati, più o meno convintamente, dai Paesi arabi), ora si è spostato sul piano dell’identità religiosa, con conseguenze rilevantissime anche sul piano internazionale: “guerra santa” da una parte, “difesa della civiltà occidentale” dall’altra.
Sotto l’aspetto del conflitto internazionale, in Medio Oriente non è più tanto in gioco il controllo delle fonti di energia (problema certamente importante, ma meno di quanto lo era mezzo secolo fa, dato che si sono trovate varie fonti alternative, come lo shale gas negli Stati Uniti, che grazie ad esso sono giunti a una indipendenza energetica quasi totale), ma, come si suole dire, il “controllo dell’ordine mondiale”. Per assicurarsi questo controllo, gli Stati Uniti, seguiti dai loro supini alleati (Gran Bretagna e Unione europea, soprattutto) devono vedersela, in primo luogo, con Cina e Russia, spalleggiate più o meno decisamente da Paesi emergenti del Sud del mondo. La situazione è ulteriormente aggravata dalla concomitanza dell’attuale fase acuta del conflitto mediorientale con la guerra in Ucraina.
In questi giorni, l’attenzione del mondo non è più rivolta a Gaza (che Israele continua comunque a bombardare), ma al Libano, e, soprattutto, alla possibilità di un conflitto aperto tra Israele e l’Iran, che appare sempre più probabile dopo l’attacco missilistico del secondo dei due Paesi contro il primo. Il titolo di un articolo di Nathalie Tocci, pubblicato su “La stampa” del 2 ottobre, sembra particolarmente azzeccato: “Stavolta gli ayatollah sono caduti in trappola”. Infatti, a partire dal 31 luglio scorso, quando Israele ha ucciso a Teheran uno dei leader di Hamas, Ismail Haniyeh, i politici e i media occidentali hanno paventato per settimane “un prossimo attacco iraniano a Israele”: sembrava proprio l’espressione di un wishful thinking. Infatti, un tale attacco avrebbe fornito a Netanyahu e al suo governo il pretesto per rispondere in un modo talmente duro da annichilire per lungo tempo il suo più pericoloso avversario nella scacchiera mediorientale. Ora, dopo il bombardamento israeliano su Beirut che ha portato all’uccisione anche del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è arrivata la risposta militare iraniana che l’Occidente e Netanyahu ardentemente desideravano: quindi qualunque rappresaglia israeliana contro l’Iran, meglio ancora se definita “misura preventiva”, apparirebbe come pienamente legittima.
Facendo un passo indietro, stando a quanto dichiarato al “Fatto quotidiano” del 5 ottobre 2024 da Youmna El Sayed, corrispondente da Gaza per “Al Jazeera”, anche l’azione di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno sarebbe stata sfruttata da Israele come una provocazione per portare il conflitto locale e regionale al suo apice, prima con la distruzione quasi totale di Gaza e le conseguenti oltre quarantamila vittime, poi con l’attacco a Hezbollah, che alla reazione di Israele aveva a sua volta risposto, con i vari lanci di missili proseguiti fino a pochi giorni fa. La giornalista afferma che “Hamas e le altre fazioni palestinesi ci avevano mandato un invito stampa [relativo allo scatenamento dell’attacco, ndr]. Lo sapevamo noi, figuriamoci Israele che ha costantemente droni in volo sopra la Striscia”. Non è possibile verificare l’attendibilità di queste affermazioni, ma non sembra neppure il caso di trascurarle (anche se comporteranno automaticamente l’accusa di antisemitismo tanto per chi le ha fatte, quanto per chi le riporta, direttamente o indirettamente).
Tornando ora alla “trappola” tesa da Netanyahu agli ayatollah, ci si può naturalmente domandare perché questi ci siano caduti: le informazioni a nostra disposizione sono troppo poche per poter azzardare qualunque congettura. Forse l’unica con un minimo di fondamento è che Khamenei e soci abbiano agito sostanzialmente per motivi di politica interna, come spesso avviene in casi del genere: se un regime comincia a temere per la sua tenuta, cerca di rivolgere l’attenzione dei suoi connazionali oppressi contro un nemico esterno, in questo caso Israele, che la stragrande maggioranza degli iraniani, pro o contro gli ayatollah, detesta, in quanto lo giudica occupante illegittimo di luoghi sacri per l’Islam. A questo proposito, sembra francamente comica la dichiarazione rivolta da Netanyahu al popolo iraniano, in cui si è voluto presentare come suo liberatore: se c’è un modo per rafforzare il regime degli ayatollah, il migliore è certamente quello di farlo diventare vittima del “Satana sionista”.
Nel momento in cui scriviamo, un attacco israeliano non si è ancora verificato, e nessuno di noi può prevedere se ci sarà: la speranza è che non si verifichi mai, ma razionalmente (e stando alle ultime dichiarazioni di Netanyahu) sembra molto più probabile il contrario. Quali potrebbero esserne le conseguenze?
Per quanto riguarda quelle immediate, dal punto di vista militare, Israele potrebbe schiacciare facilmente l’Iran, come schiacciò Egitto e Siria nel 1967, oppure sconfiggerlo dopo una breve guerra, com’è accaduto nel 1973 con questi stessi due Paesi. Netanyahu deve esserne convinto, perché altrimenti non avrebbe desiderato tanto ardentemente un pretesto per poter scatenare il suo attacco. Alessandro Orsini, sul “Fatto quotidiano” del 3 ottobre, sostiene invece che l’Iran non è così debole come si pensa, e che quindi potrebbe dare del filo da torcere a Israele. Sempre secondo Orsini, l’Iran tuttavia non vuole la guerra, perché sa che comunque non riuscirebbe a raggiungere i suoi scopi, che sono il ritiro di Israele da Gaza e dalla Cisgiordania, la nascita di uno Stato palestinese e la cessazione dei bombardamenti israeliani su Siria e Libano.
Nei prossimi giorni sapremo come andranno davvero le cose. Per il momento, dobbiamo limitarci a riflettere sulle possibili conseguenze che una guerra aperta tra Israele e Iran potrebbe avere sul piano internazionale. Come si è detto, il problema oggi non è più tanto il controllo delle fonti di energia, ma quello ancora più fondamentale della gestione dell’ordine mondiale: da una parte, la Russia (a cui gli ayatollah forniscono un consistente aiuto militare nella guerra contro l’Ucraina), sostenuta più o meno apertamente dalla Cina, dall’altro l’Occidente. A giudicare dai loro atteggiamenti, pare che la voglia di scatenare un conflitto caratterizzi ambo le parti. La Russia di Putin ambisce a recuperare, se non a conservare, la sua influenza su una vasta area del Medio Oriente, in particolare sullo stesso Iran e sui Paesi ad esso legati, in primo luogo la Siria; dal canto suo l’Iran, che voglia o no fare la guerra, è certamente in prima linea nella battaglia contro “la corrotta civiltà occidentale”.
Dall’altra parte, molti dei nostri politici e dei nostri media sostengono che siamo di fronte a un attacco delle autocrazie orientali contro le democrazie occidentali, suggerendo quindi (non troppo) implicitamente che è il caso di prepararsi alla guerra (un esempio sono le dichiarazioni di Pina Picierno, eurodeputata, ahimè, del Pd). Non sappiamo se questi personaggi si rendano conto della gravità di posizioni del genere: forse, più o meno inconsciamente, pensano alla guerra come a un affare del tipo “armiamoci e partite”; oppure, come una volta detto da Giuliano Ferrara, che ormai la guerra non si combatte più con i soldati ma con le tecnologie (quindi nessuna paura per i nostri ragazzi che dovessero essere chiamati alle armi). Sarebbe interessante conoscere l’opinione degli abitanti di Gaza, del Libano, e (perché no?) anche di quelli dell’Ucraina, questi ultimi tanto cari ai nostri difensori dei valori occidentali.