Come stanno andando le cose per Kamala Harris dopo che ha sbaragliato Donald Trump nel dibattito sulla rete Abc del 10 settembre? Non male, ma neppure troppo bene. Non male perché in queste settimane ha raccolto una valanga di soldi (il doppio di Trump) con cui pagare le tantissime iniziative della sua campagna elettorale. Entrambi i candidati girano come trottole il Paese alla media di un comizio al giorno, partecipano a decine di eventi per raccogliere fondi, supervisionano la messa in onda di centinaia di spot televisivi e finanziano le campagne “sul campo” per spingere gli indecisi (o gli indifferenti) ad andare a votare. In più Harris, rispetto a Trump, è impegnata in una massiccia campagna di comunicazione sui social media, che la sua squadra ritiene cruciale per raggiungere l’elettorato giovanile, spendendo in questo comparto venti volte di più del suo concorrente; mentre Trump, che pensa di essere lui la principale attrazione di qualunque evento, trascura i social a vantaggio della televisione e dei suoi messaggi su X.
Per Harris non è andata niente male, visto che, stando ai sondaggi, rispetto a tre mesi fa quando Biden era ancora candidato, ha accorciato le distanze tra lei e Trump: a giugno era a sei punti di svantaggio a livello nazionale, oggi (ultimi dati “New York Times” – Siena College) i due candidati sono praticamente alla pari. Anche nei cruciali swing States, quelli nei quali il differenziale tra candidati è inferiore a quattro punti, Harris ha migliorato la propria posizione riducendo il margine di Trump in alcuni del Sud (quelli della cosiddetta sun belt: Arizona, Georgia, Carolina del Nord) e arrivando alla pari o superandolo in alcuni Stati del Nord (il cosiddetto blue wall: Wisconsin, Michigan, Pennsylvania). Sono questi gli Stati, più il Nevada, nei quali si giocherà la vera partita del 5 novembre. Il motivo è noto: le elezioni presidenziali americane non sono elezioni dirette, ma di secondo grado. I cittadini eleggono un certo numero di delegati, i “grandi elettori”, in ogni Stato con la regola del “primo piglia tutto” (solo il Nebraska li attribuisce proporzionalmente); il numero di grandi elettori è dato dal numero dei rappresentanti di quello Stato nel Congresso, più due corrispondenti ai senatori che ogni Stato, grande o piccolo, ha nel Senato federale, più tre grandi elettori eletti a Washington D.C., che non ha né rappresentanti né senatori nel governo federale.
Il totale dei grandi elettori nel collegio elettorale (un collegio abbastanza atipico dal momento che non si riunisce mai insieme, ma ogni gruppo di elettori nel proprio Stato) è quindi di 538. Il numero magico che un candidato deve raggiungere per diventare presidente è 270 grandi elettori. Il sistema è tale che si può raggiungere o superare questa soglia e diventare così presidente senza avere la maggioranza del voto popolare. È successo varie volte negli ultimi decenni, da ultimo nelle elezioni del 2016 vinte da Trump, in cui Hillary Clinton ottenne quasi tre milioni di voti in più.
Ora, di questi 538 grandi elettori, 230 circa sono praticamente già assegnati in partenza. Certo, si deve ancora votare, ma poiché in una quarantina almeno di Stati (più il distretto di Columbia) la differenza tra i due candidati, e in genere tra democratici e repubblicani, è molto ampia, è quasi certo chi sarà il vincitore prima delle elezioni e a chi saranno assegnati i grandi elettori di quello Stato. La rimanente decina o poco meno di Stati è incerta, ed è qui che si concentrano le risorse delle rispettive campagne elettorali, ignorando tutti gli altri. Per un democratico, fare campagna elettorale in uno Stato rosso (repubblicano) come il Texas o il Missouri è tempo perduto e soldi buttati, perché qualunque cosa faccia, per quanto si adoperi, in quello Stato i cittadini voteranno sempre per il candidato repubblicano. E la stessa cosa vale per gli Stati sicuramente blu (democratici) come New York o la California, dove un candidato repubblicano si guarda bene dallo sprecare il proprio tempo e denaro.
Questa situazione è il risultato di decenni di polarizzazione politica che hanno reso gli elettori di un partito impermeabili alle argomentazioni dell’altro partito: una polarizzazione iniziata almeno una trentina di anni fa, e che ruota intorno a questioni di identità etnico-sociale (bianchi, neri, latini, asiatici, uomini, donne, ecc.) e a questioni valoriali (come aborto, diritti delle minoranze, di genere, armi da fuoco, ambiente, ecc.). Su ognuna di queste materie, i vari gruppi sociali ed etnici si dividono e si riaccorpano intorno a questo o quel candidato per formare una maggioranza che, per quanto composita, è largamente prevedibile. La polarizzazione è frutto di divisioni oggettive (almeno nel senso che ogni gruppo economico, sociale, razziale, di genere tende a coltivare la propria specifica identità) che si sono sviluppate nel tempo, ma a sua volta le produce e le accentua in una spirale che tende ad auto-perpetuarsi, impedendo i compromessi tra opposti schieramenti, e rendendo il sistema istituzionale di fatto ingovernabile.
L’attuale mappa elettorale, la divisione cioè tra democratici e repubblicani, risale a più di mezzo secolo fa. Prima degli anni Settanta, il Sud era prevalentemente agrario e prevalentemente democratico. L’approvazione delle leggi sui diritti civili e di voto della metà degli anni Sessanta, voluta da due presidenti democratici come John Kennedy e Lyndon Johnson, provocò (come lo stesso Johnson aveva previsto) un massiccio spostamento di elettori verso i repubblicani, che dopo sessant’anni dominano ancora il Sud degli Stati Uniti. Negli anni successivi, ci sono stati alcuni tentativi da parte di questo o quel candidato di modificare la mappa elettorale, facendo campagna elettorale in tutti gli Stati (in particolare da parte di Howard Dean segretario del Partito democratico negli anni Novanta), ma le limitate risorse economiche, e la struttura intrinsecamente maggioritaria del collegio elettorale, hanno impedito che la situazione cambiasse, almeno a livello di elezioni presidenziali. Perché, per quel che riguarda le altre elezioni, sono numerosi i casi di candidati di un partito che riescono a farsi eleggere rappresentanti, senatori o governatori in uno Stato che vota a larga maggioranza per l’altro partito, senza che i vari tipi di elezione si influenzino più di tanto tra loro: cosicché si può votare per un candidato repubblicano alla presidenza e per un democratico come senatore o governatore. È il caso di Tim Walz, candidato democratico alla vicepresidenza con Harris, ma eletto per ben due volte governatore in uno Stato tradizionalmente conservatore e repubblicano del Midwest, il Minnesota. Cosicché si può sostenere che oggi, probabilmente, l’estrema polarizzazione dell’elettorato non è frutto soltanto delle oggettive divisioni sociali e valoriali, ma anche di una certa pigrizia dei candidati che, per giocare sul sicuro, rinunciano a fare campagne elettorali a tutto campo, piegandosi a una logica economicista che finisce col rafforzare la polarizzazione, e di cui si avvantaggiano proprio figure divisive come Trump.
Quanto a Harris, il suo tentativo di “allargare il campo” oltre le divisioni sedimentate non si è concretizzato in una campagna elettorale in tutti gli Stati, ma rivolgendosi agli elettori al di là delle barriere ideologiche, razziali e di genere. Per esempio, a differenza di Hillary Clinton nella campagna elettorale del 2016, Harris raramente ha posto l’accento sul fatto di essere donna o, come fece Nancy Pelosi, quando divenne speaker, di considerare la corsa per la Casa Bianca l’ultimo “soffitto di cristallo” da spezzare; e questo nonostante Harris spesso parli di temi particolarmente importanti per le donne, come l’aborto e l’uguaglianza nei salari. Pur essendo nera (oltre che asiatica), a differenza di Barack Obama raramente parla della sua “identità di razza”, preferendo invece una narrazione di sé come di una ragazza di ceto medio che si è “fatta da sola”, anche lavorando dietro al bancone di un fast food. Così facendo, Harris ha evitato di farsi incasellare in questo o quel segmento della popolazione, schivando gli attacchi di Trump che l’aveva accusata di abbracciare l’identità nera solo per scopi elettoralistici e di essere il prodotto delle élite intellettuali della California. Si tratta però, allo stesso tempo, di una strategia a doppio taglio che, applicata a concreti temi economici o di politica estera, rischia di tradursi in una banale ricerca di un centro che non dispiace a nessuno (ma rischia di non piacere a nessuno).
Di fronte all’accusa di essere “socialista, marxista e comunista” scagliatale da Trump, Harris ha risposto di essere convintamente “capitalista”. Non si è spinta fino a ripetere lo slogan reaganiano e neoliberista secondo cui “lo Stato è il problema, non la soluzione”, ma ha precisato che compito dello Stato è di aiutare le imprese private a fornire ai cittadini le “opportunità” di cui hanno bisogno, aggiungendo di essere una persona “pragmatica, non guidata dall’ideologia”. Poi, in concreto, ha ridimensionato il progetto di riforma del fisco proposto da Biden, abbassando la tassazione sui profitti delle imprese dal 39 al 28% (Trump l’aveva portata al 21%).
Anche sulla principale questione di politica estera, la guerra di Gaza, che ormai è diventata la guerra del Medio Oriente, Harris ha preso una posizione “centrista”: ha condannato gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre, denunciando al contempo la brutalità della risposta israeliana. Non diversamente dal suo presidente, Joe Biden, ha chiesto un cessate il fuoco sia a Gaza sia in Libano, ma ha salutato con favore l’uccisione del capo delle milizie sciite Hezbollah, Hassan Nasrallah. Ha auspicato la creazione di uno Stato palestinese, che restituisca indipendenza e dignità a quel popolo, ma si è guardata bene dall’accennare a cosa in concreto gli Stati Uniti dovrebbero fare per il raggiungimento degli obiettivi conclamati di pace, al di là delle mere esortazioni.
Il grande entusiasmo suscitato nell’elettorato democratico, dopo la rinuncia alla candidatura da parte di Biden a fine luglio, è ciò che ha consentito a Harris di recuperare in gran parte il divario con Trump. Ma ormai, da alcune settimane, i sondaggi sono fermi, senza grandi variazioni per l’uno o per l’altro, dando l’impressione che la spinta dovuta alla novità del suo ingresso in campo si stia esaurendo. Se, da un lato, confortano i suoi numeri tra le donne e tra i giovani, dove ha recuperato il sostegno che i democratici avevano due anni fa, dall’altro, preoccupano i dati relativi ai neri e ai latini (che insieme costituiscono quasi il 30% dell’elettorato), tra i quali Harris ha un gradimento sensibilmente inferiore a quello che aveva Biden solo tre mesi fa.
La vaghezza delle posizioni economiche e il centrismo in politica estera possono convincere una parte degli indecisi, ma alienare coloro che vedevano in lei la possibilità di una svolta rispetto al centrismo paralizzante di Biden. Quale sarà la somma finale tra guadagni e perdite lo sapremo tra poco più di un mese.