Pur avendo ricoperto un ruolo centrale nel lungo e drammatico conflitto mediorientale e quello di partner affidabile di Israele, la Giordania è un Paese che raramente assurge agli onori delle cronache. Anche le recenti elezioni legislative del 10 settembre scorso, per rinnovare la Camera bassa, sono passate sotto silenzio malgrado la significativa affermazione della sezione locale della Fratellanza musulmana (nata in Egitto nel 1920). Il Fronte di azione islamica, che ha triplicato i consensi conquistando 31 seggi su 138 – a fronte dei 70 ottenuti dai partiti che sostengono il sovrano Abdullah II –, ha conseguito l’importante risultato in virtù delle critiche alla politica del re, accusato di essere troppo morbido nei confronti dello Stato ebraico e il massacro dei quarantamila palestinesi a Gaza.
È utile ricordare che le relazioni tra Israele e Giordania si sono stabilizzate in seguito al Trattato di Wadi Araba del 1994, che ha posto fine alla guerra iniziata con la nascita dello Stato ebraico, nel 1948. L’intesa fu una conseguenza degli accordi di Oslo, del 1993, tra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), Yasser Arafat, che avrebbero dovuto porre le basi per la nascita di uno Stato palestinese. Ma il fallimento di quel progetto e gli avvenimenti di questi mesi – dalla strage del 7 ottobre per mano di Hamas e il conseguente genocidio di palestinesi nella Striscia di Gaza a opera delle forze armate israeliane – non potevano che peggiorare le relazioni tra Amman e Tel Aviv.
In questi trent’anni che ci separano da Oslo, l’andamento dei rapporti tra i due Paesi non è stato lineare,né poteva essere altrimenti. A cominciare proprio dall’arrivo di Benjamin Netanyahu al governo, che spinse, nel 2019, il sovrano hascemita a ridurre al minimo le relazioni tra Giordania e Israele. Una situazione in parte ristabilita nel 2021, quando al governo si insediarono i due centristi Bennett e Lapid – i quali, detto per inciso, non manifestarono mai alcun interesse nei riguardi di una risoluzione della questione palestinese –, il che consentì la firma di un documento finalizzato a una nuova intesa energetica secondo cui Israele avrebbe fornito alla Giordania circa duecento milioni di metri cubi d’acqua, in cambio di seicento megawatt di capacità produttiva solare. L’accordo non fu messo in discussione nel 2022, quando Netanyahu tornò a presiedere l’esecutivo, ma le relazioni tornarono quelle del 2019. In più, la presenza nel governo israeliano di personaggi imbarazzanti, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, avevano spinto settori importanti dell’establishment giordano a chiedere la rottura delle relazioni diplomatiche.
Per gettare acqua sul fuoco, Amman si fece promotore – il 27 ottobre, a tre settimane dalla strage – di una risoluzione presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, finalizzata a una richiesta di cessate il fuoco approvata con 120 voti favorevoli, ma ovviamente con il voto contrario degli Stati Uniti. A novembre arrivava, primo tra i Paesi arabi, il ritiro dell’ambasciatore, decisione che fece da apripista ad altri gesti analoghi, come quello del Barhein e della Turchia, quest’ultima alleata storica di Hamas. A questo, dobbiamo aggiungere, lo scorso novembre, il ferimento di alcuni medici giordani che operavano in un ospedale da campo a Gaza, che comportò il ritiro dell’accordo acqua-per-elettricità.
A preoccupare il regno è anche la drammatica situazione in Cisgiordania, dove la popolazione palestinese è vessata, da un lato, dai coloni e dall’altro dagli attacchi dell’esercito (vedi qui), il che potrebbe avere conseguenze per la Giordania in termini di rifugiati. Proprio per questo motivo, la monarchia e il governo continuano a farsi promotori del cessate il fuoco, per tentare anche di arginare le proteste di piazza (vietate nella Valle del Giordano e nelle altre zone di confine con Israele) di una popolazione che chiede misure drastiche come il ritiro dal Trattato di Wadi Araba.
Per l’esecutivo, guidato da Jafar Hassan – un uomo dal curriculum prettamente occidentale (studi a Ginevra, Boston e Parigi), nominato al posto del dimissionario Bisher al-Khasawneh all’indomani del voto –, significa camminare su un crinale pericoloso. “Negli ultimi mesi – dice Mattia Serra, ricercatore presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) e presso l’Università di Bologna, su tematiche legate al Medio Oriente – centinaia, forse migliaia, di persone sono state arrestate, mentre numerosi sono i casi registrati di intimidazione. In molti di questi, è stata applicata la discussa legge sulla cybersicurezza, che il parlamento giordano ha approvato la scorsa estate”. Si tratta – sostiene il giovane studioso – di “una normativa che introduce dure condanne per la pubblicazione sui social media di contenuti considerati contro la morale pubblica o intesi a fomentare conflitti nella società”. Il punto critico riguarda i parametri utilizzati da giudici e procuratori, che dovranno decidere, con ampia discrezionalità, se questa o quella pubblicazione è “degna” di comparire o meno.
La preoccupazione della Giordania, riguardo al conflitto in corso, concerne anche il temuto arrivo di migliaia di profughi palestinesi. Per questo, il re Abdullah ha sostenuto all’Assemblea generale dell’Onu che il proprio Paese “non diventerà mai una sede alternativa per uno Stato palestinese”. Il sovrano ha puntato l’indice contro “gli estremisti che stanno portando la nostra regione sull’orlo di una guerra totale”. Fra questi – ha aggiunto – “vi sono coloro che continuano a propagare l’idea della Giordania come patria alternativa” per i palestinesi.
La Giordania è il secondo Paese al mondo per presenza di rifugiati in rapporto alla popolazione. Gli arrivi risalgono al 1948, all’indomani della nascita dello Stato ebraico, la nakba (“catastrofe”) per i palestinesi, e al 1968, dopo la guerra dei “sei giorni” – senza contare le continue occupazioni dei territori da parte dei coloni, mai contrastate dai governi che si sono susseguiti a Tel Aviv. In Giordania, i profughi palestinesi sono già tre milioni: con il tempo, si sono inseriti e costituiscono una parte attiva della popolazione. Impegnata anche nell’assistenza di un milione e trecentomila siriani, arrivati dopo la guerra civile del 2011, Amman non vuole più accogliere coloro che fuggono dai conflitti, che molto spesso hanno il marchio della stella di David. Per tutte le ragioni che abbiamo indicato, non sarebbe quindi una sorpresa, visti anche i risultati delle elezioni, un pur difficile ritorno alla situazione pre-’94, che potrebbe portare Israele a un ulteriore isolamento nella regione: cosa che però non preoccupa affatto Netanyahu, forte della potenza militare di cui dispone e dell’assoluta mancanza di volontà dell’Occidente di procedere verso una pacificazione dell’area.