Con lo scenario mondiale occupato da due tragiche guerre, in Ucraina e nel Medio Oriente, da Gaza al Libano, quella del Sudan è una delle guerre dimenticate. Ma a questo conflitto si sta sommando una straordinaria emergenza umanitaria. Secondo l’Onu è la catastrofe più grande attualmente in corso nel mondo, poiché tocca oltre la metà dei quarantacinque milioni di abitanti, di cui dieci hanno dovuto lasciare la propria abitazione, il più rapido movimento di sfollati in corso nel mondo; di questi, 2,4 milioni si sono rifugiati nei Paesi vicini. Si stima che 2.5 milioni di persone potrebbero morire entro la fine dell’anno. Alla carestia si è aggiunta, da luglio, l’epidemia di colera, dovuta alle condizioni di vita imposte dalla feroce guerra che sta consumando il Paese. I morti sarebbero finora 415, e le persone colpite oltre 13.300; ma il bilancio si aggrava giorno dopo giorno, con un sistema sanitario al collasso, distrutto dai combattimenti.
A fronteggiarsi questa volta, dall’aprile dello scorso anno (vedi qui), due eserciti: quello regolare guidato da Abdel Fattah al-Burahn, capo della giunta al potere, e le forze paramilitari della Rapid Support Force (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, già vicepresidente della giunta. Lo scontro nasce da una semplice questione di potere, nel momento in cui i militari, dopo il colpo di Stato che provocò la caduta del regime islamista di al-Bashir (1989-2019), avrebbero dovuto condividere il ritorno alla democrazia con i civili. La guerra finora ha fatto ventimila morti, e l’inviato americano ne stima centocinquantamila, con decine di migliaia di feriti. Il conflitto si caratterizza per l’estrema violenza nei confronti dei civili.
L’organizzazione per i diritti umani Human Right Watch (Hrw) ha documentato, in un rapporto di fine luglio, la violenza sistematica nei confronti delle donne, con stupri anche di gruppo, la schiavitù sessuale e i matrimoni forzati, senza contare le conseguenze fisiche, psicologiche e mentali di tali condizioni. Le violenze, soprattutto nelle città e comunque nelle zone di guerra, sono opera soprattutto dei paramilitari, ma anche i soldati dell’esercito regolare se ne sono resi protagonisti. Entrambi gli schieramenti rendono impossibile, o comunque problematica, l’assistenza alle vittime, sia direttamente sia attaccando il personale sanitario e volontario. A questo si aggiungono le torture, le esecuzioni sommarie, le mutilazioni dei cadaveri, che Hrw denuncia come crimini di guerra. Una parte di questi ha potuto essere svelata dalle immagini che sono circolate sui social, postate verosimilmente dai militari stessi, che si sentono al riparo da qualsiasi sanzione. L’impunità è uno dei fattori moltiplicatori delle violenze di questa guerra. Per questo Hrw ha invitato la missione delle Nazioni Unite in Sudan ad avviare un’inchiesta internazionale.
In questo momento, si combatte per la presa della città di El-Fasher, capitale del Darfur settentrionale, nella parte occidentale del Paese già tragicamente sconvolta nei decenni scorsi da un sanguinoso conflitto. È l’ultima capitale delle province del Darfur ancora in mano all’esercito regolare, e riveste un ruolo strategico. Non si vede come il conflitto possa cessare. Un tentativo di negoziati per un cessate il fuoco, iniziato a Ginevra a metà agosto, ha riunito alcuni attori importanti su impulso di Stati Uniti, Arabia saudita e Svizzera. In assenza del governo di al-Burahn, l’unico risultato tangibile è stata l’apertura di un valico al confine col Ciad per far passare degli aiuti umanitari, comunque insufficienti.
Ad alimentare la guerra sono naturalmente le armi. Teoricamente è in vigore, dal 2004 nel Darfur, un embargo votato dall’Onu, puramente virtuale, che i due campi violano sistematicamente. L’11 settembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha riconfermato l’embargo, perdendo tuttavia, ancora una volta, l’occasione di estenderlo a tutto il Paese, o di inviare una forza di interposizione. Le armi sono fornite ai paramilitari della Rsf soprattutto dagli Emirati arabi uniti, e sono di diversa provenienza: serba, cinese, iraniana, russa. L’esercito regolare si rifornisce di armi iraniane, turche e russe.
Non stupisce che la Russia si trovi su entrambi i fronti. È proprio dal Sudan che la Russia, a partire dal 2017, ha sviluppato la sua strategia di ritorno in Africa. Dopo avere appoggiato la Rsf, oggi ha una politica più equilibrata, perché interessata alle miniere d’oro sotto controllo governativo, e soprattutto a uno sbocco sul Mar Rosso. Una delegazione commerciale russa è giunta in questi giorni in Sudan per discutere di questi due aspetti col governo, in particolare a seguito della firma, in giugno, di un accordo per l’esplorazione e l’estrazione dell’oro con la società Zarubezhgeologiya. Quanto all’accesso ai porti sudanesi, la delegazione ha rinnovato l’interesse della Russia in cambio di investimenti.