Dimentichiamo Gennaro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia, i complotti presunti e i divorzi tempestivi a mezzo stampa (amica), le nomine pubbliche imbarazzanti e i retroscena estivi sulle baruffe con Matteo Salvini e Antonio Tajani. Giorgia Meloni non intende farsi schiacciare nel trantran della non sempre facile gestione dell’alleanza di governo e si proietta, invece, sulla scena internazionale, con la sua ambizione “di guidare, non di seguire”, sbandierata in occasione della sua premiazione, a New York, con il Global Citizen Award dell’Atlantic Council. Il discorso di accettazione, pronunciato nella notte di lunedì 23 settembre, è un manifesto politico attraverso il quale la presidente del Consiglio mette nel cassetto l’orgoglio per il “riscatto”, rivendicato dopo la vittoria elettorale del 2022: a livello internazionale appassionerebbe poco la vicenda, troppo di nicchia, della presunta emarginazione storica del Movimento sociale italiano, erede “democratico” dell’esperienza fascista repubblichina.
“Avrei potuto parlare – dice ai suoi interlocutori d’oltreoceano, a cominciare dal padrone di Tesla e di X, Elon Musk, stretto alleato di Donald Trump, che le ha consegnato il riconoscimento – dell’inscindibile legame che unisce Italia e Stati Uniti, indipendentemente dalle convinzioni politiche dei rispettivi governi”. Meloni sembra pronta a riciclarsi come “trumpiana” in caso di ribaltone alla Casa Bianca, dopo essere stata più che benvoluta a Washington con l’amministrazione Biden, grazie alla sua postura rigidamente filoisraeliana di fronte alla carneficina mediorientale, e ultra-atlantista in Europa, sebbene il suo governo sia spesso rimasto un passo indietro rispetto agli eccessi “guerrieri” che accomunano conservatori e laburisti britannici, destra e centristi polacchi, e gran parte dei leader baltici e scandinavi attuali. Il riconoscimento dell’Atlantic Council, del resto, è stato storicamente attribuito a esponenti di partiti diversi, accomunati da una fedeltà atlantista inscalfibile. Tra i nomi onorati in passato, basterà citare il fanatico custode dell’ortodossia austeritaria europea, Mark Rutte, il post-pinochettista presidente cileno Sebastian Piñera, il senatore statunitense militarista John McCain, un leader della destra nazionalista come l’ucraino Petro Poroshenko, e un “progressista” come il canadese Justin Trudeau. Fra gli italiani, Mario Draghi (quando era presidente della Bce) e uno dei predecessori di Meloni, Matteo Renzi.
È a questo Occidente “unico” che parla Meloni, proponendo la sua visione a due soli colori: declinismo contro suprematismo occidentale. Visione però nobilitata da una lettura del mondo che la avvicina molto a quella dei democratici americani (e dei loro sostenitori europei e globali): lo scontro infatti, a giudizio della leader italiana, è quello fra “democrazie” e “autocrazie”. Un editorialista di “Repubblica” non avrebbe potuto esprimersi diversamente. Meloni rivendica il “nazionalismo occidentale” che le è stato attribuito da un editorialista di “Politico.com”, ma si schermisce, guardando al pubblico più vasto che ambisce a riunire sotto le sue bandiere: “Non so se nazionalismo sia la parola corretta, perché – ammette – spesso richiama dottrine di aggressione o di autoritarismo. So, però, che non dobbiamo vergognarci di usare e difendere parole e concetti come Nazione e Patriottismo, perché significano più di un luogo fisico”.
Di fronte a un “Sud globale” che “chiede maggiore influenza”, Meloni individua due rischi. Parla di “oicofobia”, ovvero “l’avversione verso la propria casa”, che “ci porta a voler brutalmente cancellare i simboli della nostra civiltà”. L’altro rischio “è il paradosso per cui se, da un lato, l’Occidente si guarda dall’alto in basso, dall’altro pretende spesso di essere superiore agli altri”. In questo sentiero stretto l’Occidente di Meloni deve scrollarsi di dosso i suoi dubbi, la sua crisi, riscoprire Ronald Reagan, citato con il suo proclama su “volontà e coraggio morale degli uomini e delle donne liberi”. Non possiamo, avverte, “rinunciare alla forza della nostra identità, perché sarebbe il miglior regalo che possiamo fare ai regimi autoritari. Quindi, in fin dei conti, il patriottismo è la migliore risposta al declinismo”.
Insomma, Meloni lancia il suo patriottismo globale. Una ricetta che un tempo sarebbe stata considerata poco più che un vuoto slogan. Ma in un mondo nel quale il premier laburista britannico, Keir Starmer, sceglie Roma per una delle prime visite di Stato agli inizi del suo mandato, l’idea di una Giorgia Meloni isolata nel suo fortino per nostalgici, destinato a essere spazzato via dai venti forti della politica internazionale, rischia di rivelarsi una pia illusione; e le opposizioni che dovessero continuare a coltivarla potrebbero pagarla a caro prezzo.