“Battere Hamas senza diventare Hamas”. Così qualche giorno fa, in un’intervista rilasciata a “La Stampa”, Eshkol Nevo, noto scrittore israeliano, manifestava la sua preoccupazione legata al perdurare del conflitto in corso tra l’organizzazione islamica palestinese e l’esecutivo dello Stato ebraico presieduto da Netanyahu. Uno scontro, militarmente impari, che ha provocato, all’indomani della strage di israeliani del 7 ottobre, oltre quarantamila morti tra i palestinesi e migliaia di feriti a Gaza, diventata un cumulo di macerie. Ma l’intellettuale, noto per la sua sensibilità nei confronti della questione palestinese, non ha capito, o comprensibilmente ha rimosso, che il suo Paese, suo indiscusso punto di riferimento esistenziale (“non ho altro posto dove andare oltre Israele, qui c’è il mio futuro e quello della mia famiglia”, ha detto nell’intervista), è diventato Hamas non solo durante quest’ultimo anno, ma ormai da tempo, e che non ha nessuna intenzione di tornare a essere il Paese dei “due popoli due Stati”, come previsto dagli accordi di Oslo del 1993.
E, quando finirà la sciagurata era Netanyahu, non ci sarà probabilmente nessuno desideroso di riprendere un cammino interrotto dalla natura stessa di uno Stato da ritenere a questo punto, purtroppo, irriformabile. L’obiettivo sembra essere quello di trasformare ancor più Israele in un fortino, in un piccolo Paese dotato di un arsenale militare anche atomico, mai dichiarato ufficialmente, che ha dimostrato, com’è avvenuto nelle ultime ore, di essere in grado di colpire con i mezzi più imprevedibili e stravaganti, se così possiamo dire, qualsiasi nemico si stagli all’orizzonte.
Ecco dunque l’attacco in Libano, dove migliaia di cercapersone realizzati dall’azienda taiwanese Gold Apollo e utilizzati dalle milizie di Hezbollah – il Partito di Dio filoiraniano –, in luogo dei più rintracciabili smartphone quanto a possibilità di intercettazione e hackeraggio, sono stati segretamente manipolati a opera dell’efficientissimo Mossad, dotandoli probabilmente di esplosivo Petn. Questi strumenti, utilizzati per lo più da medici e infermieri per essere richiamati, sono stati comandati a distanza e sono esplosi contemporaneamente a Beirut e in altre regioni del Paese dei cedri, fino alla capitale della Siria, Damasco, e in Iraq. Risultato: la morte di diciannove persone tra le quali una bambina di 11 anni, il ferimento di quattromila, mentre cinquecento hanno perso la vista, ivi compreso l’ambasciatore iraniano Mojtaba Amani.
Ventiquattro ore dopo, si sono verificate nuove esplosioni nella periferia di Beirut e nella valle della Bekaa, con un primo bilancio di tre morti secondo l’agenzia ufficiale libanese. In questo caso sono state registrate altre deflagrazioni di sistemi collegati ai pannelli solari e di macchine per le impronte digitali, oltre che di numerosi walkie-talkie. Se non ci sono dubbi sulla matrice israeliana dell’attacco terroristico, non è chiaro se questa escalation sia stata voluta direttamente dal premier, oppure decisa e messa in atto da qualcuno interno al regime, e, se possibile, ancora più oltranzista del primo ministro. La qual cosa porterebbe a galla l’esistenza di un conflitto all’interno dell’esecutivo dello Stato ebraico tra falchi e avvoltoi, visto che non è il caso di parlare di colombe.
Netanyahu ha preso le distanze da Topaz Luk, suo stretto collaboratore, che ha lasciato intendere sui social che ci sarebbe Israele dietro l’ampio attacco ai cercapersone di membri di Hezbollah. Si sarebbe inoltre svolta una riunione molto tesa, organizzata nella fossa della Kyria, il bunker del governo, per capire quale potrà essere la risposta di Hezbollah e sulle possibilità di Israele di contrastarla, in un contesto che vede ormai definitivamente aperto un nuovo fronte nel nord, dove sessantamila israeliani sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni per ragioni di sicurezza, ai confini del Libano.
Difficile interpretare questi ipotetici contrasti all’interno dell’establishment israeliano, che però sono destinati a rientrare di fronte all’escalation in atto. In ogni caso, questa drammatica quanto inedita spirale di follia, che si sta aggiungendo a quanto sta avvenendo dal 7 ottobre 2023 a Gaza e in Cisgiordania, manda definitivamente in fumo ogni possibile soluzione positiva delle eterne quanto inutili trattative tra Hamas e Israele sulla liberazione degli ostaggi – il cui destino è ovviamente segnato – e sul cessate il fuoco, corredate dagli inutili quanto patetici viaggi in Medio Oriente del segretario di Stato americano, Antony Blinken.
Va aggiunto che l’offensiva a base di cercapersone, che ha preso alla sprovvista il mondo intero, rende complicata la reazione militare di Hezbollah così come dell’Iran, i quali hanno ora di fronte una nuova quanto subdola arma nelle mani dello Stato ebraico, nella forma di veri e propri attentati terroristici lontani dalla logica, sia pure criminale, dei bombardamenti. Non è certo una novità che Israele si trova costretto a difendere i propri confini, come nel 1967 e nel 1973. Ma allora le due guerre terminarono rapidamente. Lo scenario odierno è completamente diverso. Il premier ha bisogno, com’è noto, di restare in sella per evitare di essere processato, ipotesi che lo porterebbe direttamente in carcere. E dunque, come un cane rabbioso, allarga il più possibile un conflitto cominciato da un evento drammatico che, per ragioni sospette, nessuno è stato in grado di prevenire ed evitare.
“Lo stallo nelle trattative per un cessate il fuoco – scriveva, nell’agosto scorso su “Domani”, Davide Assael, ebreo italiano, filosofo e fondatore e presidente dell’associazione Lech lechà – replica a Gaza quanto già abbondantemente visto. Si perpetua una situazione senza sbocco per entrambe le parti. Lo Stato ebraico rischia così di perdere un’occasione storica offerta dal nuovo quadro mediorientale”. E qui torna quanto abbiamo scritto all’inizio. Pensare che Israele, con questo esecutivo, non sia ancora diventato come Hamas e che uno come Netanyahu possa approfittare di una presunta occasione storica, di fatto inesistente, dimostra che un “sionismo democratico” e disposto a trattare con i palestinesi è presente solo nella testa di pochi intellettuali (appunto come Nevo e Assael), ignorato non solo dai vari governi israeliani che si sono succeduti – Bennett, premier dal 2021 al 2022, era contrario all’ipotesi di uno Stato palestinese e minimizzava gli attacchi dei coloni in Cisgiordania –, ma anche dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza negli ultimi anni contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu.