La vicepresidente venezuelana, Delcy Rodríguez, sabato scorso, ha fatto sapere che il Venezuela ha concesso un salvacondotto a Edmundo González Urrutia, rivale del presidente Nicolás Maduro. González – che era stato ospite dell’ambasciata olandese fino a giovedì 5 settembre, passando poi in quella spagnola – ha lasciato il Venezuela, e nel pomeriggio di domenica ha raggiunto Madrid a bordo di un aereo militare. “Oggi, 7 settembre, ha lasciato il Paese il cittadino dell’opposizione Edmundo González Urrutia, che dopo essersi rifugiato volontariamente nell’ambasciata spagnola a Caracas per diversi giorni, ha chiesto a quel governo la concessione dell’asilo politico (…). Il Venezuela ha concesso i dovuti salvacondotti per la tranquillità e la pace politica del Paese”, ha dichiarato Delcy Rodríguez. Con il fratello Jorge – che ha guidato le delegazioni governative che negli ultimi anni hanno negoziato sia con l’opposizione sia con governi stranieri, come quello degli Stati Uniti, ed è stato il capo della campagna di Maduro nelle elezioni del 28 luglio – Delcy Rodríguez è un tassello fondamentale della catena di comando del presidente, il quale ha appena aggiunto alla sua lista di incarichi, anche quello, importantissimo, di ministro del Petrolio.
Completano il cerchio magico di Maduro, Cilia Flores, sua compagna di vita, nominata primera combatiente; Diosdado Cabello, uno dei chavisti più radicali al potere in Venezuela, eterno numero due del regime e attuale potente ministro dell’Interno, considerato ideologicamente più vicino al “nazionalismo militare” che alla sinistra rivoluzionaria; Vladimir Padrino López, ministro della Difesa da dieci anni, grazie al quale i militari in Venezuela sono stati sempre più coinvolti nella sicurezza della nazione e conquistato spazio all’interno del governo, al punto che più di un terzo del gabinetto è composto da militari attivi o in pensione. Una situazione che rende ampiamente improbabile che, da parte loro, possa mancare l’appoggio a Maduro.
Delcy ha spiegato che i governi di Venezuela e Spagna hanno mantenuto i “contatti pertinenti” e, “in conformità alla legalità internazionale”, aggiungendo che “questa condotta riafferma il rispetto per il diritto che ha prevalso nell’azione della Repubblica bolivariana del Venezuela nella comunità internazionale”. Anche il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares, è intervenuto sulla vicenda, facendo sapere, attraverso il suo account X, che “Edmundo González, su sua richiesta, vola in Spagna su un aereo delle forze aeree spagnole. Il governo spagnolo è impegnato per i diritti politici e l’integrità fisica di tutti i venezuelani”, e ha aggiunto che non riconoscerà la vittoria di Maduro finché non saranno resi pubblici i verbali elettorali.
González Urrutia aveva incontrato i diplomatici spagnoli sabato, secondo quanto riportato dal quotidiano “El País”. Fonti citate dal giornale hanno indicato che l’ex presidente, José Luis Rodríguez Zapatero, ha svolto un ruolo chiave negli sforzi per garantire l’uscita di González dal Venezuela, trattando direttamente con Jorge e Delcy Rodríguez. Ancora “El País” ha rivelato che, mentre l’oppositore venezuelano stava valutando l’offerta di asilo del governo spagnolo, un aereo inviato dalla Spagna era in attesa nella Repubblica dominicana per trasferirlo immediatamente a Madrid. La decisione è venuta poche ore dopo che Pedro Sánchez aveva affermato che il portabandiera dell’opposizione venezuelana è “un eroe che la Spagna non abbandonerà”.
L’uscita dal Paese di Edmundo González era del resto nell’aria da tempo, dopo che il governo aveva intensificato la sua attività di repressione contro la popolazione, imprigionando più di duemila persone in una settimana. Anche se, ancora martedì scorso, l’avvocato José Vicente Haro aveva dichiarato che González Urrutia non aveva chiesto asilo politico né cercato rifugio in alcuna ambasciata. Tuttavia, l’assedio a cui le forze di sicurezza avevano sottoposto la sede della legazione argentina, che da marzo ospita sei collaboratori di Maria Corina Machado – la leader dell’opposizione venezuelana – accusati di terrorismo, dopo avere revocato unilateralmente la custodia diplomatica del Brasile su di essa in vigore da agosto, era già stato un chiaro segnale che oggi non c’è rifugio sicuro in Venezuela. L’assedio è cessato domenica mattina, non appena Edmundo ha lasciato il Paese. Il che rende chiaro, se ce ne fosse ancora bisogno, cosa realmente si ripromettesse il governo con una simile prova di forza.
Su González Urrutia gravava un mandato di arresto richiesto dal pubblico ministero per usurpazione di funzioni, falsificazione di documenti pubblici, istigazione alla disobbedienza, cospirazione e sabotaggio. Era accusato formalmente di avere divulgato i verbali di voto via web. La stessa cosa che, nelle elezioni presidenziali dell’aprile 2013, da poco morto Hugo Chávez, aveva fatto il Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), attraverso il suo sito web ufficiale, senza che allora la magistratura, al contrario di ora, avesse avuto nulla da eccepire. Edmundo ha notificato, attraverso José Vicente Haro, i motivi per cui non si è presentato alle tre citazioni precedenti, ordinate prima di chiederne la cattura: si è rifiutato di presentarsi sostenendo che la giustizia non è indipendente. Il procuratore generale, Tarek William Saab, ha dichiarato domenica che, con la partenza dell’oppositore Edmundo González Urrutia, “si è giunti al capitolo finale” di un’opera buffa con “sangue, sudore e lacrime”, che ha causato “sconvolgimento” tra la popolazione dopo le elezioni presidenziali del 28 luglio.
María Corina Machado ha detto che la partenza dell’ex diplomatico González Urrutia è stata causata della persecuzione da parte del potere politico, e ha assicurato che lei continuerà a combattere in Venezuela, dove da tempo è entrata in clandestinità. “La sua vita era in pericolo, e le crescenti minacce, le citazioni in giudizio, i mandati di arresto e persino i tentativi di ricatto e coercizione di cui è stato oggetto, dimostrano che il regime non ha scrupoli o limiti nella sua ossessione di zittirlo e cercare di piegarlo. Di fronte a questa brutale realtà, è necessario per la nostra causa preservare la sua libertà, la sua integrità e la sua vita”, ha spiegato Machado in un messaggio pubblicato sul suo account X. E ha assicurato che il 10 gennaio 2025, Edmundo González presterà giuramento come “presidente costituzionale del Venezuela e comandante in capo delle forze armate nazionali”. “Che questo sia molto chiaro a tutti: Edmundo combatterà dall’esterno insieme alla nostra diaspora, e io continuerò a farlo qui, insieme a voi. Serenità, coraggio e fermezza! Venezuelani, questa lotta è fino alla fine e la vittoria è nostra”, ha concluso la vincitrice delle primarie presidenziali dell’opposizione del 2023, aggiungendo che l’opposizione rimane “aperta” alla negoziazione.
Secondo l’83% dei verbali pubblicati dall’opposizione, Edmundo González avrebbe vinto le elezioni presidenziali del 28 luglio con il 67% dei voti contro il 30% attribuito a Maduro. I sospetti di frode sono stati avanzati anche da organismi indipendenti, che hanno partecipato come osservatori alle elezioni, come il Centro Carter, e dal rettore principale del Consejo nacional electoral (Cne), Juan Carlos Delpino, che, dopo la sua denuncia, è stato rimosso. Tuttavia, il chavismo si rifiuta di mostrare i verbali per dimostrare la sua vittoria, mentre inasprisce la repressione, e viola l’articolo 155 della Legge organica dei processi elettorali (Lopre), che impone al Consejo nacional electoral la pubblicazione dei risultati delle elezioni presidenziali nella “Gazzetta elettorale” entro trenta giorni dalla proclamazione dei candidati eletti.
Dalla sua trasmissione televisiva “Con Maduro+”, l’attuale presidente ha cercato di distogliere l’attenzione della gente dalla crisi, decretando “l’anticipo del Natale al 1° ottobre”, consapevole che per molti venezuelani le feste natalizie sono un periodo di enorme attesa, per i benefici che si ricevono al lavoro, per le vacanze, per i bonus e gli aiuti concessi dal governo. Non certo una novità, dato che l’aveva già fatto nel 2020, in piena pandemia.
La decisione di lasciare il Paese, da parte di González Urrutia, segna comunque una svolta drammatica nella vicenda che da settimane ha precipitato il Venezuela in una grave crisi, mentre l’anziano ex diplomatico va ad aggiungersi agli oltre duecentomila venezuelani che hanno cercato rifugio in Spagna, tra i quali figurano Leopoldo López, leader del partito Voluntad popular, condannato a tredici anni di carcere, e l’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, che ha subito due anni di carcere e arresti domiciliari con l’accusa di cospirazione. Intanto, si avverte sempre più concretamente, presso le cancellerie dei Paesi latinoamericani, il timore che la delusione provocata dal fallimento del tentativo di transizione possa spingere migliaia di venezuelani a lasciare il Paese, andando ad aggiungersi a quei sette milioni e settecentomila compatrioti che già lo hanno fatto. Poco meno di un terzo della popolazione, di cui ben sei milioni e cinquecentomila hanno trovato rifugio in un Paese del cono Sud o del Caribe (fonte Unhcr dell’Onu).
L’uscita di González Urrutia lascia un vuoto che l’opposizione deve colmare, in una situazione pericolosa in cui chiunque può essere arrestato in qualsiasi momento. Nonostante le assicurazioni contrarie di Maria Corina Machado, il regime ottiene di allontanare dal Paese un pericoloso avversario condannandolo, nei suoi auspici, alla morte politica. Maduro si trincera isolandosi ancor più a livello mondiale dai cosiddetti Paesi democratici, con il risultato che il suo governo opera un salto di qualità e spinge il Venezuela sulla strada intrapresa da tempo dalla dittatura personal-familiare di Daniel Ortega e Rosario Murillo in Nicaragua. Potendo contare ormai solo sull’appoggio di campioni dell’autoritarismo come la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord.
Con Edmundo González Urrutia in esilio, il regime di Maduro si riconferma al potere, rendendo evanescenti le ipotesi di una transizione. Ciò segna una sconfitta rotonda per l’opposizione, ma probabilmente non la sua fine. Maduro e la sua cerchia erano consapevoli che mettere in carcere quello che si dichiara “presidente eletto” sarebbe stato un passaggio insostenibile, mentre il suo allontanamento permette di scaricare la tensione. Questo spiega la sollecitudine con cui il chavismo ha gestito la sua partenza. Per l’opposizione, sarà di capitale importanza che la gente mobilitatasi elettoralmente il 28 luglio continui a percepire quell’unità tra Machado e González Urrutia, che ha permesso il miracolo, per nulla scontato, che il voto dei venezuelani che rifiutano il madurismo passasse da Corina – la candidata scelta dalle primarie ma inabilitata dal chavismo – a un suo, fino a quel momento, quasi sconosciuto rappresentante; e che la probabile nascita di un governo in esilio si saldi con la mobilitazione interna e con la pressione esercitata a livello internazionale. Il 10 gennaio, il presidente eletto dovrà prestare giuramento. La speranza dell’opposizione è che, da qui ad allora, maturino le condizioni affinché Maduro, o uno dei gruppi politici e militari che lo sostengono al potere, promuova una sorta di transizione in un Paese immerso nella crisi economica e sociale.
Edmundo ha mandato da Madrid un messaggio ai suoi compatrioti, con un appello al dialogo, spiegando che il suo esilio nasce dall’intento di far sì che “le cose cambino” e si costruisca “una nuova fase per il Venezuela”. “Solo la politica del dialogo può farci incontrare di nuovo”, ha scritto nella lettera, pubblicata sul suo account X. “È un gesto che tende la mano a tutti e spero che come tale sia ricambiato”, ha aggiunto. Nella sua dichiarazione, González Urrutia sottolinea che “solo la democrazia e la realizzazione della volontà popolare possono essere la strada per il nostro futuro come Paese”, e che in questo momento la libertà dei prigionieri politici è la “grande priorità” e una “esigenza irrinunciabile”.
Almeno per il momento – in attesa di possibili evoluzioni che è arduo ipotizzare, e che il pessimismo porterebbe a escludere – dell’opera di mediazione che il presidente brasiliano Lula da Silva aveva condotto assieme a Gustavo Petro e, in un modo un po’ differente, con il messicano López Obrador, rimangono solo macerie. Si deve prendere atto del conseguente ridimensionamento dell’aspirazione di Lula a esercitare un ruolo guida, se non ancora nello scacchiere internazionale, almeno in quello del sub-continente americano. A sinistra, l’affaire venezuelano ha messo a nudo le profonde divisioni, peraltro già ampiamente emerse in più occasioni, tra Cuba, il Nicaragua e l’Honduras, pronti a riconoscere l’elezione di Maduro, e il Cile di Gabriel Boric allineato all’Argentina di Milei e agli Stati Uniti, nel riconoscere la vittoria di Edmundo; e poi il Brasile, la Colombia, il Messico impegnati, senza successo, a costruire una via di uscita che punti sul dialogo al fine di evitare il baratro.
Nelle scorse settimane, Lula da Silva ha fatto spesso riferimento alla situazione critica che il Venezuela sta attraversando, chiedendo reiteratamente che i verbali del processo elettorale siano pubblicati, ma domandando anche che le sanzioni contro Caracas siano tolte. In una recente intervista a Radio Gaúcha, ha detto: “Penso che il Venezuela abbia un regime molto sgradevole. Non credo che sia una dittatura, è diverso da una dittatura”. E ha aggiunto: “È un governo con una inclinazione autoritaria, ma non è una dittatura come conosciamo così tante dittature in questo mondo. (…) Quello che penso è che il Venezuela è un Paese molto interessante per il Brasile, è un Paese che ha chilometri di confine con il Brasile, è un Paese in cui il Brasile ha raggiunto un surplus commerciale di quasi 5.000 milioni, è un Paese che potrebbe essere un grande partner per il Brasile nella costruzione di una forza politica. (…) L’opposizione dice che ha vinto, Maduro dice che ha vinto, e io posso solo riconoscere che il processo è stato democratico se presentano le prove”.
Mentre ancora non è giunta una sua dichiarazione sulla partenza di Edmundo González dal Paese, il presidente brasiliano ha convocato, domenica scorsa, i suoi consiglieri diplomatici per discutere la situazione in Venezuela nel Palacio da Alvorada, la sua residenza ufficiale. E da Itamaraty, il ministero degli Esteri brasiliano, è giunta l’assicurazione che il Brasile rimarrà responsabile della sede diplomatica dell’Argentina a Caracas fino a quando Buenos Aires non nominerà un altro Paese per rappresentare i suoi interessi in Venezuela. Quanto alla Colombia, il ministro degli Esteri, Luis Gilberto Murillo, si è rammaricato della partenza del candidato dell’opposizione venezuelana verso la Spagna e ha chiesto un “dialogo per costruire un accordo che garantisca la pace politica nel Paese vicino”. Tutti segni che, nonostante tutto, uno straccio di mediazione sembrerebbe ancora continuare.
Tuttavia, come ha spiegato di recente alla Bbc Juan Barreto, docente universitario, direttore nel 1998 dei media della campagna presidenziale di Hugo Chávez e, dopo la sua vittoria elettorale, viceministro delle Comunicazioni, ex sindaco di Caracas, fondatore del partito di sinistra Redes, l’ultimo desiderio di Chávez “era che accompagnassimo la candidatura di Maduro. Sotto forti critiche, abbiamo deciso di sostenere quest’ultimo desiderio e abbiamo sostenuto Maduro. Speravamo che, dato il suo carattere civile e i suoi sette anni e mezzo nella cancelleria, avrebbe fatto un governo più flessibile e democratico, e che avrebbe realizzato le riforme che Chávez non ha tentato. (Ma) abbiamo iniziato ad avere punti di disaccordo con Maduro. Il principale è stato quando con una marcia di lavoratori verso il Palazzo di Miraflores abbiamo portato prove di atti di corruzione nell’industria petrolifera. Con nostra sorpresa, gran parte dei lavoratori che hanno denunciato la cosa, hanno iniziato a essere licenziati, a essere perseguitati. Molti di loro (…) sono stati arrestati o hanno dovuto lasciare il Paese. Di fronte a questo, abbiamo deciso di rompere con Maduro alla fine del 2015. La rappresaglia politica è arrivata immediatamente e siamo stati processati dal Consejo nacional electoral, che nel 2017 ci ha tolto la tessera elettorale, come hanno poi fatto al Partito comunista e ad altri”. Il suo giudizio è netto: “Il chavismo era una coalizione di forze diverse, dove c’erano persone che venivano dal Partito comunista, persone di destra. Cosa ci univa? La figura di Chávez, la sua leadership, il suo carisma e il progetto di Costituzione. Oggi c’è una deriva burocratica autoritaria che si è consolidata, ed è il madurismo”.
Nella foto: Edmundo González Urrutia