Ci sono diverse considerazioni da fare sulla scelta, arrivata ben due mesi dopo il risultato elettorale, del primo ministro francese. Anzitutto riguardo al sistema detto semi-presidenzialista, in realtà semi-bonapartista, che caratterizza la Quinta Repubblica – una peculiare invenzione di De Gaulle, come si sa. In una democrazia parlamentare, a fronte di un’assemblea frammentata (in Francia non ci sono tre blocchi, come si sente ripetere, ma addirittura quattro, se si considera la piccola sebbene non inessenziale rappresentanza della destra moderata ex gollista), un’alleanza di sinistra arrivata in testa, dotata di una maggioranza relativa, avrebbe trattato con la componente da sé meno lontana per formare un governo. Ovviamente, non sulla base dell’intero programma (in particolare, cancellazione della riforma delle pensioni – passata con un colpo di mano governativo, senza un voto in parlamento –, reintroduzione della “imposta di solidarietà sulla fortuna” ovvero di una patrimoniale, aumento del salario minimo) ma su quella di un compromesso che permettesse all’Assemblea nazionale di funzionare con una maggioranza assoluta, o almeno con un’ampia maggioranza relativa.
Questa strada è stata però di fatto impedita dal ruolo preponderante assegnato dal sistema al presidente della Repubblica, vero capo dell’esecutivo e leader di una forza politica con i suoi alleati (si parla infatti di un “partito presidenziale”). È lui a decidere “in solitaria” il nome del primo ministro. Macron, rifiutando di nominare Lucie Castets – la giovane economista, funzionaria del Comune di Parigi, proposta dalle sinistre come loro rappresentante –, ha rifiutato la “coabitazione” (cioè la presenza di un primo ministro di diverso colore rispetto a quello del presidente) con il pretesto che i gruppi parlamentari centristi, di cui lui stesso è il leader, avrebbero immediatamente presentato una mozione di sfiducia nei suoi confronti; ed è come se avesse detto: “Se la nomino, poi la faccio cadere in parlamento”. Strano giochino, che, mentre si appella alla necessità di una “stabilità istituzionale”, è messo in campo da quella stessa figura che esercita le funzioni di arbitro. Il sistema è insomma una fogna di cui lo stesso presidente, quando gli piaccia, può essere il destabilizzatore.
Scartata dunque la soluzione più naturale – vedere in parlamento come sarebbe andata la coalizione di sinistra mediante una contrattazione, anche caso per caso, provvedimento per provvedimento, con il blocco centrista –, a causa della influenza che avrebbe potuto esercitare la France insoumise (sebbene Mélenchon, con una mossa non da poco, si fosse detto pronto a rinunciare ad avere dei ministri nella compagine governativa), le opzioni rimanenti non erano che due.
La prima, sondare la possibilità di dividere le sinistre con la nomina di un dissidente ex socialista, da sempre contrario all’alleanza con Mélenchon – e il nome sarebbe stato quello di Bernard Cazeneuve, già ministro e primo ministro sotto la presidenza di Hollande. Una soluzione piuttosto singolare, se si pensa che proprio Macron, anche lui ministro con Hollande, aveva rotto con tutta questa vecchia destra socialista in virtù del famoso slogan “nello stesso tempo”, che significa (proprio alla Veltroni, diremmo noi) stare un po’ di qua e un po’ di là, un colpo al cerchio e uno alla botte. Che è poi il contenuto più autentico di qualsiasi centrismo – appena un passo oltre la cosiddetta “terza via” di un socialismo che, dichiarandosi tuttavia ancora tale, guarda al centro.
Questa opzione è stata bloccata da un ufficio politico del Partito socialista, durato quattro ore, in cui il segretario Olivier Faure, ancora una volta, è riuscito a tenere a bada la consistente minoranza interna disponibile a un’apertura verso un primo ministro ex socialista. Qua si deve dire che tenere il punto è stato fondamentale: l’elettorato di sinistra, chiamato in estate in tutta fretta a votare il cartello delle sinistre (più che un “fronte popolare”) per fare sbarramento all’estrema destra, non avrebbe mai sopportato un Partito socialista bassamente compromissorio, che arriva a rompere, con i suoi sessanta deputati o poco più, un’alleanza a sinistra faticosamente messa in piedi.
La seconda opzione – e Macron si è messo quasi in ginocchio per tentare di realizzarla – sarebbe stata quella di coinvolgere la destra moderata (una quarantina di deputati) in una coalizione vera e propria con il blocco centrista. Dopotutto, è da sempre che il presidente non fa che cooptare il proprio personale politico da quella parte: i ministri uscenti dell’Interno e della Cultura, tanto per fare qualche esempio, vengono dalle file della destra. Ma ecco che qui proprio il sistema, incentrato sulla figura del capo dello Stato, delude le aspettative di Macron. Laurent Wauquiez, leader dei sopravvissuti ex gollisti, aspira alla poltrona presidenziale. Chi glielo avrebbe fatto fare di allearsi stabilmente con Macron, detestato più o meno da tutti, compromettendo così le sue chance di essere eletto nel 2027? Offre quindi a Macron solo un “patto” su alcuni punti programmatici, più dei “no” che dei “sì” – come per esempio, nessun aumento delle tasse (non sia mai!), nonostante la situazione economica generale in cui versa la Francia non sia per nulla delle migliori.
A questo punto, la svolta. Macron a destra tutta per cercare di evitare che possa passare in parlamento una mozione di sfiducia (nell’ordinamento francese si dice “di censura”) nei confronti di un governo non di “coabitazione” e nemmeno di “coalizione”, piuttosto una specie di mix tra le due, con la nomina di Michel Barnier, un settantenne alquanto defilato – certamente di destra, soprattutto sulla questione dell’immigrazione –, che ha il pregio di essere un abile negoziatore, come ha dimostrato nella vicenda della Brexit, da lui gestita in qualità di commissario europeo. Barnier non è affatto inviso a Marine Le Pen. E di questo Macron si è assicurato facendole una serie di telefonate. Dunque, quando si presenterà in parlamento, il nuovo primo ministro potrà contare su un ascolto benevolo da parte dell’estrema destra, oltre che sull’approvazione dei centristi e della destra moderata.
Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. La crisi politica francese non si chiude qui. Già sabato 7 settembre è in programma una risposta di piazza da parte delle sinistre.
Nella foto: Michel Barnier