Tanto nelle piccole come nelle grandi cose, ci sono destini storici cui è difficile sottrarsi. Nel nostro piccolissimo caso, quello delle concessioni balneari, pare che il governo italiano attuale non sia capace se non di procrastinare ad infinitum problemi cui non è in grado di trovare una soluzione razionale (e certo l’elenco sarebbe lungo). Il conflitto con l’Unione europea sulla questione delle concessioni – tramandate, in barba persino a qualunque logica liberista, in maniera “ereditaria” e clientelare – va avanti da anni, e ha assunto la forma di una procedura d’infrazione, di cui abbiamo parlato a suo tempo (vedi qui).
Con la scadenza delle concessioni, lo scorso dicembre 2023, e la successiva decisione della Corte costituzionale di dichiarare illegittime le proroghe automatiche, si è aperta una finestra di non-governo giuridico dei litorali, di cui hanno approfittato numerose organizzazioni per le spiagge libere per contestare la legittimità delle occupazioni costiere da parte degli stabilimenti. La manifestazione denominata “presa della battigia”, operata pacificamente il mese scorso a livello nazionale dall’Associazione Mare libero, che, dal 2019, si batte per la restituzione del mare perduto ai cittadini, ha provocato reazioni scomposte e seminato inquietudine tra i rentiers delle concessioni, che hanno visto affollarsi sulle spiagge di costosi stabilimenti gruppi di contestatori non-paganti.
La vicenda è assurta agli onori della cronaca internazionale, con un lungo articolo sul “Guardian” dello scorso 8 agosto, che ne ricostruiva tutti gli aspetti. La necessità per il Paese di tentare di adeguarsi, una volta per tutte, alla direttiva Bolkestein diventava impellente, sotto la spinta degli eventi e del vuoto normativo creatosi. Da non sottovalutare anche il fatto che il deferimento alla Corte di giustizia dell’Unione implica una multa milionaria che si sarebbe aggiunta alla cifra di un miliardo di euro, già sborsato dall’Italia in dieci anni, per non aver rispettato le direttive comunitarie.
Così è di ieri il decreto governativo, elaborato in fretta e furia, che dovrebbe “mettere ordine” nella giungla delle concessioni. Da una parte, esso strizza l’occhio ai balneari, da sempre elettori di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega, prorogando le concessioni fino al settembre 2027; dall’altra, introduce un pallido criterio di razionalizzazione, prevedendo la messa a gara dopo quella data, e la possibilità, per i comuni che vogliano farlo, di avviare delle gare già durante questo triennio di interludio. Si prevede che la durata delle nuove concessioni, che si attiveranno in linea di massima dopo il 2027, vada “da un minimo di cinque a un massimo di venti anni, al fine di garantire al concessionario di ammortizzare gli investimenti effettuati, l’assunzione di lavoratori impiegati nella precedente concessione, che ricevevano da tale attività la prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare, l’indennizzo per il concessionario uscente a carico del concessionario subentrante e pari al valore dei beni ammortizzabili e non ancora ammortizzati e all’equa remunerazione degli investimenti effettuati negli ultimi cinque anni”. È interessante notare che, tra i criteri di valutazione delle offerte, “sarà considerato anche l’essere stato titolare, nei cinque anni precedenti, di una concessione balneare quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare”.
È bastato agitare lo spettro, peraltro remoto, della messa a bando, per scatenare la dura reazione delle organizzazioni dei balneari, che si attendevano una tutela dei loro interessi ancora più vincolante e stretta, e si lagnano ora tanto dei limiti temporali della nuova proroga, quanto degli indennizzi limitati per i gestori uscenti, nonché dei limiti nel punteggio nelle gare di affidamento per chi abbia avuto in concessione uno stabilimento negli ultimi cinque anni, previsti dal decreto.
Per parte sua, l’Unione europea ha preso atto del provvedimento, pur senza nascondere una punta di scetticismo: la portavoce, Johanna Bernsel, in un rapido scambio con la stampa, ha confermato che quanto approvato dal governo è frutto di un’intesa, e che il risultato viene accolto “con favore”. Ma la procedura di infrazione rimane aperta, e per il momento non verrà chiusa. Bernsel ha infatti aggiunto: “Non lo faremo ora. Lo faremo una volta che le ultime norme italiane per le concessioni saranno pienamente in linea con il diritto dell’Unione”. Insomma, si attende la corretta e reale attuazione di quanto teoricamente previsto dal decreto.
D’altro canto, non c’è molto da illudersi se si riflette sulla sensibilità al riguardo presente nel governo. La ministra del Turismo, Daniela Santanchè, ha dichiarato poco più di un anno fa, in una intervista riportata da “Repubblica”, che è necessario implementare il processo di appropriazione dei litorali (già in mano privata al 70%) ed “eliminare le spiagge libere rimaste assegnandole ai privati”, dato che, a suo parere, queste sono unicamente un ricettacolo “di tossicomani e di sporcizia”. Forse andrebbe ricordato che la ministra è stata a lungo, prima di cedere la sua quota al socio e al marito per il conflitto d’interessi, comproprietaria del Twiga a Forte dei Marmi – concessione balneare che, a fronte di un affitto annuale pagato allo Stato di poche decine di migliaia di euro, fattura milioni all’anno –, e che aveva cercato di ottenere da Meloni una delega speciale per occuparsi appunto di balneari, assegnata poi invece a Nello Musumeci.
Tutto perciò pare andare nella direzione di un quieta non movere, che rappresenta forse al meglio lo spirito dell’azione di governo. Non a caso è stata scaricata sui comuni la responsabilità di procedere eventualmente a gare per le assegnazioni prima del 2027: sarà interessante vedere se e in quanti ci proveranno. Così la sesta proroga ai balneari ha tutto il sapore di una “soluzione all’italiana”, e il clamore delle proteste, che sembra si stiano preparando da parte dei titolari degli stabilimenti, appare destinato a coprire nuove trattative, in un gioco delle parti che è probabilmente il preludio a una sostanziale continuità nella gestione della questione, pur nelle mutate forme auspicate dalla Unione europea.