L’evoluzione dei due conflitti che da tempo ci preoccupano (o dovrebbero preoccuparci), quello russo-ucraino e quello di Gaza, appare quanto mai incerta. C’è da essere abbastanza pessimisti in entrambi i casi: a Gaza non si arriverà a un cessate il fuoco, neppure provvisorio (nonostante l’ottimismo ostentato da Biden e dal suo segretario di Stato Blinken, almeno in un primo tempo); e l’invasione ucraina della regione russa di Kursk contribuisce ad allontanare ulteriormente le prospettive di una soluzione negoziata del conflitto (ammesso che ce ne siano mai state, dopo il fallimento dei negoziati della primavera del 2022, se non imposto, almeno benedetto, da Stati Uniti e Gran Bretagna). Non potendo fare previsioni anche solo minimamente ragionevoli sui possibili sviluppi dei due conflitti, dato che gli avvenimenti si succedono con tale rapidità da rendere difficile renderne conto in modo adeguato, vorremmo soffermarci su due questioni meno contingenti, ossia: qual è l’atteggiamento dei governi e dei principali media occidentali di fronte all’evolversi dei due conflitti? E quale quello dell’opinione pubblica “di sinistra” in Italia e, più in generale, nei Paesi occidentali?
Per quanto riguarda governi e media, l’atteggiamento è uniforme, caratterizzato cioè da una generale ipocrisia, tanto nel caso di Gaza che in quello della guerra russo-ucraina. L’atteggiamento, invece, delle forze politiche e dell’opinione pubblica di sinistra è diverso nei due casi. L’ipocrisia di governi e media consiste nel voler far credere che Ucraina e Israele possano, per così dire, fare la guerra a metà. Il fine dell’Ucraina è realizzare la propria politica, che è in rotta di collisione con gli interessi della Russia: aderire alla Nato, negare ogni autonomia alle popolazioni russofone del Donbass, ecc.; per raggiungere questo fine, l’Ucraina sembra davvero pronta a giocarsi il tutto per tutto, contando sul sempre più deciso appoggio occidentale. Quindi, la discussione se l’Ucraina sia legittimata o no a operare anche sul territorio russo con le armi fornite dall’Occidente sembra francamente ridicola: se le si concede di combattere, anzi la si spinge a farlo, perché dovrebbe contenere i propri sforzi bellici, che abbiano uno scopo puramente tattico oppure quello di rafforzare la propria posizione al momento di eventuali trattative?
Ancora più vergognosa è l’ipocrisia nel caso del conflitto a Gaza. L’Occidente, in particolare l’Unione europea, chiede continuamente a Israele “moderazione”: ma questo cosa significa? Che invece di uccidere cento persone alla volta l’esercito israeliano deve limitarsi a dieci o venti? Come sostenuto qualche mese fa su “terzogiornale” (vedi qui), Netanyahu non sta portando avanti la guerra a Gaza per eliminare i capi di Hamas, dato che è perfettamente in grado di farlo in modo “mirato”, come dimostra il caso di Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran; il suo scopo non può essere neppure quello di annientare l’intera organizzazione terroristica, perché per farlo dovrebbe uccidere centinaia di migliaia di gazawi, cosa che probabilmente gli sarebbe impedita da suoi stessi alleati. Recentemente, il governo israeliano ha dichiarato che 17000 delle circa 40000 vittime di Gaza erano terroristi (e, quindi, la loro uccisione era giustificata); mantenendo la stessa proporzione (il 42, 5%), e considerato che Gaza conta circa 3.200.000 abitanti, Israele dovrebbe ucciderne circa 1.360.000, per raggiungere il suo scopo dichiarato, cioè “la completa eliminazione di Hamas”. L’obiettivo reale di Netanyahu è probabilmente quello di costringere gli abitanti di Gaza a lasciare il territorio, per installarvi coloni israeliani. Pertanto, se l’Occidente (e in particolare gli Stati Uniti) vuole davvero porre termine al massacro in corso, l’unica strada è quella di fermare Netanyahu togliendogli ogni appoggio; ma Biden continua a fornirgli armi (e Kamala Harris non sembra intenzionata a cambiare rotta).
Non sembra che ci siano sondaggi circa l’atteggiamento dell’opinione pubblica di sinistra in merito ai due conflitti. Non possiamo dunque che basarci su impressioni soggettive, sintetizzabili così: se la riprovazione del comportamento di Israele a Gaza è generalizzata, le opinioni sono molto più sfumate per quanto riguarda la guerra russo-ucraina. Usando il lessico dei giornali benpensanti, si direbbe che gli “antisemiti” superino i “putiniani”. In Italia, la segretaria del Pd, Elly Schlein, si è più volte scagliata contro la condotta di Israele a Gaza, ma ha manifestato un “sostanziale atlantismo” a proposito del conflitto russo-ucraino. In Francia, Mélenchon, leader della France insoumise, ha sostenuto che una parte di responsabilità nei massacri del 7 ottobre sta nella politica israeliana nei confronti dei palestinesi (il che gli è immediatamente valso l’accusa di antisemitismo); ha continuato però a dichiararsi favorevole all’invio di armi all’Ucraina, sia pure schierandosi contro l’ipotesi macroniana di un coinvolgimento diretto nel conflitto. Nel parlamento europeo, il gruppo della sinistra appare diviso: i rappresentanti dei Paesi nordici e della France insoumise sono favorevoli all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, mentre quelli di Grecia, Italia e Spagna sono contrari.
Inoltre, in Italia e altrove, le manifestazioni a sostegno della Palestina sono state molte di più di quelle a favore di una soluzione negoziata della guerra tra Russia e Ucraina. Alcune migliaia di persone hanno manifestato davanti alla convention del Partito democratico, a Chicago, chiedendo alla nuova candidata alla presidenza, Kamala Harris, la cessazione della fornitura di armi a Israele (richiesta che, come si diceva, la stessa Harris non è affatto disposta ad accogliere). Queste manifestazioni seguono quelle a favore della Palestina tenute nei mesi scorsi in vari campus universitari statunitensi, con la partecipazione anche di alcuni studenti ebrei. Non risulta, invece, che negli Stati Uniti ci siano state manifestazioni rilevanti a favore di una soluzione negoziata della guerra russo-ucraina.
In teoria, questo atteggiamento dovrebbe stupire: dei due Paesi aggrediti, infatti, quello che ha subito il colpo iniziale più doloroso è stato Israele, con la carneficina del 7 ottobre 2023; l’invasione russa del 24 febbraio 2022, invece, non aveva causato, all’inizio, un numero elevato di vittime. Quindi, in astratto, la reazione di Netanyahu sembrerebbe più giustificata, diciamo così, di quella di Zelensky.
Probabilmente, all’opinione pubblica di sinistra (e non solo) il comportamento di Israele a Gaza è apparso fin da subito altrettanto efferato di quello di Hamas, se non di più: la stessa cifra delle vittime (circa 1200 dell’attacco di Hamas contro le 40000 dell’operazione condotta dall’esercito israeliano) lo mostra. Inoltre, è inevitabile, per chi crede nel diritto di ogni popolo a vivere libero e indipendente, non riconoscere che questo diritto è stato negato al popolo palestinese, a partire dal 1948, e in forme sempre più gravi negli ultimi decenni, con la politica di colonizzazione ebraica della Cisgiordania. Questo non significa che Israele non abbia diritto di esistere, cioè che i cittadini israeliani non abbiano il diritto di vivere in una terra in cui si sono insediati da oltre settant’anni; soltanto si tratterebbe di conciliare i diritti di entrambi i popoli, soluzione che, se è respinta da Hamas, lo è anche da parte di molti israeliani, non solo da Netanyahu.
Al contrario, chi nutre sentimenti sinceramente democratici – e, aggiungiamo pure, socialisti – non può provare alcuna simpatia per Putin, che non solo è un autocrate, come lo furono tutti i leader sovietici, con la sola eccezione di Gorbačëv, ma ha anche favorito nel suo Paese lo sviluppo del capitalismo più selvaggio. Si potrebbe obiettare che nemmeno l’Ucraina, finora, si è rivelata un grande modello di democrazia: la Chiesa ortodossa, che dipende dal patriarcato di Mosca, è stata messa fuori legge, con l’obbligo per il suo clero di aderire entro nove mesi alla Chiesa autonoma ucraina; un bell’esempio di tolleranza, non c’è che dire.
Tutto questo non è comunque un buon motivo per modificare il giudizio su Putin e giustificare la sua aggressione. Non si tratta, in altre parole, di decidere chi è “il buono” e chi “il cattivo”, ma di interrogarsi su quali siano i rischi di un ulteriore inasprimento del conflitto, individuando le linee di una sua possibile soluzione. Tanto gli uni quanto l’altra sono evidenti e sono stati ribaditi più volte, anche se la propaganda mainstream vorrebbe minimizzare i primi, tendendo a passare l’altra come impossibile da raggiungere, a meno che “Putin non accetti le condizioni dell’Ucraina”.
Che un’ulteriore escalation della guerra russo-ucraina possa trasformare l’attuale riscaldamento globale in una “frittura globale” (come ha detto Chomsky) dovrebbe essere chiaro a ogni persona ragionevole; e altrettanto ragionevole è una soluzione che preveda la rinuncia dell’Ucraina ad aderire alla Nato e il riconoscimento di un’effettiva autonomia alle popolazioni russofone, in cambio di una garanzia internazionale sull’inviolabilità della sua indipendenza e dei suoi confini. In questo caso, non si tratta (a differenza di quanto accade per la Palestina) di difendere i diritti negati di un popolo, ma di salvaguardare la sopravvivenza del genere umano; in parole povere, non di un problema di giustizia ma di ragionevolezza. Chi nutre sentimenti di sinistra non può avere a cuore solo i problemi del primo tipo.