Solo poco tempo fa la campagna per le presidenziali americane si preannunciava come la più scontata e noiosa della storia. Le elezioni primarie si susseguivano straccamente, e i più stanchi e annoiati erano gli analisti e i commentatori politici, per il semplice fatto che i due candidati, il democratico e il repubblicano, marciavano senza rivali raccogliendo delegati da “spendere” nelle rispettive convention. A differenza di quanto accaduto nelle campagne precedenti, Donald Trump dominava incontrastato il suo partito: i pochi che gli si erano opposti – personaggi di calibro, come Nikki Haley, Ron DeSantis, Chris Christie – erano stati rapidamente liquidati dal vendicativo ex presidente, senza neppure l’onore delle armi. Quanto al campo democratico, è regola quasi generale che il presidente in carica sia il candidato naturale del partito: infatti, a contrastarlo, si erano fatti avanti soltanto due contendenti di nessun peso politico e francamente bizzarri (anche se per motivi diversi) come Robert Kennedy e Marianne Williamson, anche loro rapidamente messi fuori gioco all’inizio della corsa.
Il paradosso era che, nonostante i due candidati maggiori fossero praticamente obbligati, nessuno dei due godeva del favore popolare: entrambi, Biden e Trump, viaggiavano sotto il 40% dei consensi; con la maggioranza degli elettori di entrambi i partiti che – dichiarava – avrebbe voluto poter votare per un candidato diverso.
Ad aggravare la situazione, il 27 giugno c’era stato il primo dibattito presidenziale tra Biden e Trump. Nel giudizio di tutti gli osservatori si era trattato di un disastro per l’anziano presidente, sembrato ancora più senile, incerto e farfugliante di quanto fosse già apparso ripetutamente nei mesi precedenti. A Trump era andata meglio, ma solo in confronto alla catastrofica performance del suo antagonista; per il resto, aveva inanellato le solite falsità ed esagerazioni condite di battute razziste e sessiste, comunque apprezzate dai suoi sostenitori.
Dopo il dibattito, in campo democratico era scattato l’allarme rosso: i giornali liberal, i maggiorenti del partito, i grandi finanziatori della campagna elettorale, avevano incominciato a domandarsi seriamente se Biden non stesse trascinando il partito (non solo la presidenza, ma con essa anche centinaia di parlamentari) nel disastro. Ma Biden, sostenuto apertamente dalla famiglia e dalla cerchia di consiglieri più stretti, teneva duro, dichiarando che “soltanto una richiesta proveniente dall’Altissimo” l’avrebbe convinto a farsi da parte.
Poi, all’improvviso, tutto è cambiato. Il 13 luglio, mentre teneva un comizio nella cittadina di Butler in Pennsylvania, Trump era stato oggetto di un tentativo di assassinio da parte di un ragazzo armato di un fucile automatico posizionato, incredibilmente, a poche decine di metri dal palco guardato a vista dalla polizia e dal secret service presidenziale. Trump aveva riportato fortunatamente solo una ferita di striscio all’orecchio, ma la foto di lui con il volto insanguinato e il pugno alzato in segno di sfida, aveva contribuito a farlo schizzare in alto nei sondaggi: cosicché, pochi giorni dopo, quando il 15 luglio a Milwaukee nel Wisconsin iniziava la convention repubblicana, poteva presentarsi come un martire e un combattente che aveva prevalso contro le forze del male. (Nessuno naturalmente, né nel campo repubblicano né, per la verità, in quello democratico, si è interrogato su quanto sia normale che in un Paese civile una persona possa andarsene tranquillamente in giro con un fucile automatico AR15, l’arma letale più usata nelle stragi americane).
In occasione della convention che doveva “incoronarlo” candidato, tra le manifestazioni di adorazione dei delegati (quasi tutti bianchi e di mezza età), Trump tuttavia non si presentava con la consueta arroganza e sicumera. In un discorso di quasi un’ora e mezza, sforando ampiamente il prime time (un peccato mortale nel mondo della politica mediatizzata), raccontava con toni mesti e non privi di sincerità i dettagli della sua esperienza di “quasi morte” (“Io non dovevo essere qui”, ha ripetuto più volte), suscitando la commozione del pubblico smanioso di emozioni forti. A questo punto, finita la convention, l’opinione della stragrande maggioranza degli osservatori era che la campagna elettorale fosse finita prima ancora di incominciare: il 5 novembre Trump avrebbe vinto alla grande; si trattava soltanto di vedere quanti parlamentari si sarebbe portato dietro e quanto larga sarebbe stata la maggioranza repubblicana nel Congresso.
E invece, ancora un cambiamento improvviso. Il 21 luglio, a tre giorni dalla fine della convention repubblicana, in un post su X, Biden annuncia che si ritira dalla corsa “nella convinzione che è nel migliore interesse del partito e del Paese” concentrarsi nell’adempimento dei doveri di presidente, durante il periodo restante del mandato. Poche ore dopo questo primo messaggio, dichiara che sosterrà la candidatura della sua vicepresidente Kamala Harris.
Cosa era successo? Niente di nuovo eccetto che, col passare dei giorni, erano aumentate le preoccupazioni nel campo democratico sull’inadeguatezza di Biden a condurre con successo la campagna elettorale e, se rieletto, a governare per altri quattro anni. Nella casa al mare, a Rehoboth nel Delaware, dov’era rinchiuso a causa di un attacco di Covid, l’anziano presidente era stato raggiunto dai principali esponenti del partito, i capigruppo di Camera e Senato, Hakeem Jeffries e Chuck Schumer, la ex speaker della camera Nancy Pelosi, ai quali si erano probabilmente aggiunti per telefono altri esponenti di spicco del partito, come Bill e Hillary Clinton e Barack e Michelle Obama: tutti insieme lo avevano convinto a rinunciare “volontariamente” alla candidatura. Gli storici determineranno quanto di volontario ci sia stato in questa rinuncia. Non c’è alcun dubbio che Biden fosse convinto di essere all’altezza del compito, anzi – come aveva più volte ripetuto – di essere l’unico in grado di battere Trump. Ammesso che si sia ritirato volontariamente, certo non l’ha fatto volentieri; probabilmente l’argomento più convincente è stato il fatto che i grandi donatori avevano fatto trapelare che, con lui candidato, avrebbero tagliato i fondi alla campagna democratica.
Trump ha colto subito l’occasione per denunciare un coup, un “colpo di Stato”, perché i democratici avrebbero deciso di cambiare cavallo in corsa dopo che le primarie lo avevano di fatto già nominato, attribuendogli migliaia di delegati impegnati a votare per lui.
Come che sia, deve esserci stata all’interno del Partito democratico una feroce, rapida e silenziosa partita, tra i sostenitori di Biden “costi quel che costi” e quelli che non volevano rassegnarsi a una sicura sconfitta. Hanno vinto i secondi, ma, a dimissioni avvenute, tutti hanno rilasciato dichiarazioni tipiche dei regicidi nei drammi shakespeariani: hanno ringraziato il presidente per il suo “nobile gesto”, per aver messo “il Paese prima delle sue ambizioni personali”, per il suo “spirito di servizio” e, nella convention democratica che si sarebbe celebrata di lì a un paio di settimane, esaltando con toni iperbolici i risultati della sua presidenza, “probabilmente la più grande della storia”.
Un’altra battaglia, breve anche questa, c’è stata tra i sostenitori della candidata designata, Kamala Harris, e coloro che nel partito scalpitavano già da tempo per un posto in prima fila; costoro (una fitta schiera di illustri governatori tra cui Gretchen Whitmer, Gavin Newsom, Josh Shapiro) avevano sostenuto Biden (almeno fino a un certo punto) nella certezza che, in ogni caso, tra quattro anni sarebbe stato il loro turno; mentre, se Harris risultasse eletta, di eventuali altre candidature si riparlerà di qui a otto anni – in politica un’era geologica. Alcuni manifestavano preoccupazioni per l’unità del partito, oltre che per la dubbia legalità della sostituzione del candidato già prescelto nelle primarie, e proponevano, in alternativa a una investitura dall’alto, un percorso di miniprimarie per scegliere un candidato “unitario”. È a questo punto che la coppia Obama, nel timore di ulteriori disastrose battaglie interne, è intervenuta con tutto il suo peso. Hanno telefonato, prima l’uno poi l’altra, a Kamala Harris, le hanno dato la loro benedizione e chiuso così la partita.
È iniziata quindi un’altra storia. Nei giorni immediatamente seguenti, la gente si è entusiasmata, e i soldi dei grandi e piccoli donatori hanno ricominciato ad affluire nei forzieri del Partito democratico. La nuova candidata ha da subito mostrato sicurezza di sé e simpatia, facendo balzare verso l’alto le intenzioni di voto a favore dei democratici, sia a livello nazionale sia negli Stati in bilico, dove fino a pochi giorni prima Donald Trump era in vantaggio di diversi punti. (Qualcuno dovrebbe domandarsi come mai, durante tutto il corso della presidenza Biden, la vicepresidente godeva di un favore popolare persino inferiore a quello già basso del presidente, e ora, senza avere fatto ancora nulla, ma solo mostrando la propria faccia sorridente, è salita nei sondaggi. Misteri della sondaggistica).
Dopodiché Harris ha provveduto ad assestare un altro colpo azzeccato, con la nomina del candidato alla vicepresidenza: Tim Walz, il governatore del Minnesota, uomo simpatico quanto lei, e nelle sue politiche anche più progressista. Così, il 19 agosto, si è presentata alla convention democratica di Chicago, che doveva essere quella dei tristi perdenti ed è invece diventata la convention degli allegri probabili vincenti (joy è stato lo slogan più sentito e liberatorio). Doveva essere la convention della contestazione in piazza (soprattutto sulla Palestina), ma un’accorta regia è riuscita a smorzare le critiche più accese. Doveva essere la convention della continuità (“per finire il lavoro iniziato”, aveva detto Biden) ed è diventata la convention del cambiamento, dell’andare avanti (forward è stato l’altro slogan più sentito); doveva essere una convention tutta in difesa per proteggere il presidente in carica, ed è diventata una convention giocata all’attacco che, pur attenta a non criticare mai l’anziano presidente, anzi esaltandone i “grandissimi risultati”, ha di fatto corretto le posizioni di politica interna e anche estera (ma non sull’Ucraina).
Il risultato di queste straordinarie cinque settimane è che, all’inizio di settembre, la campagna elettorale per le presidenziali è diventata improvvisamente interessante e, per i protagonisti, eccitante. Il contesto è completamente cambiato. I democratici sono all’attacco e fiutano la possibilità di vittoria; i repubblicani sono sulla difensiva e temono la sconfitta; mentre prima avevano davanti a sé un’amministrazione ferma che potevano colpire a piacimento come un saccone di pugilato, adesso si trovano davanti a una candidata nuova e dinamica, che si sposta rapidamente e colpisce per prima. Trump, in particolare, sente la mancanza di Biden, che lui aveva soprannominato Sleepy Joe. Il fatto che ancora non sia riuscito a trovare un nomignolo dispregiativo per Kamala è un segno di come potrebbero andare le cose il prossimo 5 novembre.