(Questo articolo è stato pubblicato il 4 marzo 2024)
Sono lontanissimi gli anni Settanta, che furono un periodo di grande partecipazione democratica, ma anche, con importanti conquiste sociali, anni di stragi, di tentativi di colpi di Stato e di violenza politica. L’entusiasmo e il terrore durarono fino all’inizio degli anni Ottanta, quando finirono entrambe le stagioni, sia dell’estrema destra sia dell’estrema sinistra, ma, ahimè, fatalmente anche l’interesse per la partecipazione; e l’Italia, in modo non diverso da gran parte del mondo occidentale, ripiegò sul privato. A distanza, a volte, molti adulti sentono quasi nostalgia per quell’attivismo, per quelle grandi passioni che non si sa bene come e perché siano finite. Generazioni di genitori, di educatori, e fior fiore di esperti, ripetono: “Non esistono più i giovani di una volta”.
Sembrerebbe consequenziale, rispetto all’esiguità di tempo dedicato loro da scuola e famiglia, avere prodotto generazioni che non sanno più come fare rete, come fare sentire la propria voce in merito ai loro sogni, o ai loro incubi, mentre forse neppure sanno affermare l’esistenza di certi bisogni. Ma il 23 febbraio scorso gli studenti sono tornati in piazza, hanno protestato per la guerra in Palestina. Non furono gli studenti del 1967 a contestare la guerra in Vietnam? Dispiace dire, però, che pure pacifici, pure in abiti normalissimi e senza armi di alcun genere, siano stati caricati come dei criminali.
Ecco, gli studenti sono tornati, ma il loro ritorno non è stato bene accolto. A tal proposito viene in mente un passaggio della storia d’Italia che risale agli anni immediatamente successivi al Risorgimento, gli anni in cui l’Italia era tutta da “rifare”, gli anni in cui l’analfabetismo era più del 37%, mentre nell’Europa del Nord andava scomparendo. Gran parte del popolo italiano era toccato da difficoltà concrete di sopravvivenza e da condizioni drammatiche di lavoro e di vita, ma la nuova compagine di governo, il ministero Rudinì, dimostrava di essere più preoccupata dal pericolo della sovversione rivoluzionaria.
Il marchese Antonio di Rudinì, un nobile siciliano di orientamento moderato, salito al potere dopo Crispi, mostrò chiaramente la volontà di erodere i principi di libertà e rappresentanza su cui si fondava il sistema parlamentare di allora. Nella primavera del 1898 accadde che, a causa del sensibile aumento del pane, dovuto al cattivo raccolto, in tutta la penisola ci furono proteste a cui il governo rispose autorizzando cariche di polizia e arresti dei manifestanti. Per solidarietà con i dimostranti feriti e arrestati nel corso di questi tumulti, sabato 7 maggio, a Milano, a partire dalla fabbrica Pirelli, gli operai – soprattutto i più giovani e le donne – scesero in sciopero e sfilarono in corteo per il centro cittadino. Furono raggiunti da un drappello dell’esercito, a cui bastò la minima provocazione – qualcuno lanciò dei sassi – per aprire il fuoco, uccidendo due operai.
Scrisse Torelli Viollier, fondatore e direttore del “Corriere della sera”, che l’insurrezione poteva dirsi conclusa dopo il sabato, mancava una prospettiva di organizzazione o di direzione; inoltre non erano state toccate le armi. “Tuttavia” – continuava Viollier – “domenica mattina furono sparate due cannonate, una a polvere e subito dopo una palla a Porta Ticinese. Testimoni oculari mi assicurano che non ci fu ragione di spararle e furono cagionate dall’idea che dalla porta stessero per entrare gli studenti, i leggendari studenti di Pavia. Fatto è che morirono parecchi sulla porta delle loro case” (Eugenio Torelli Viollier, Domenica 8 maggio: una reazione immotivata, lettera a Pasquale Villari).
Fu il generale Fiorenzo Bava Beccaris a dare l’ordine di sparare sui cittadini inermi (i morti furono più di ottanta, centinaia i feriti). Torelli Viollier colse con precisione il carattere pretestuoso della repressione voluta dal governo e la volontà di ridurre al silenzio l’opposizione socialista e anarchica. Torelli rimase isolato nella sua denuncia, mentre il governo proseguì nella sua opera di smantellamento della rete politica e sociale costruita intorno ai lavoratori.
Perché raccontare oggi un episodio così lontano, apparentemente diverso, causato da moventi differenti? Forse perché nella distanza risiede una lucidità della visione?
La giovane Italia “sgangherata” e “ingenua” dell’epoca, ma consapevole del senso dell’unirsi nella protesta, colpita nelle sue risorse ed energie umane con provvedimenti quali lo “stato d’assedio”, può essere paragonata alla giovane Italia che ha manifestato il 23 febbraio scorso. Mancava a questa manifestazione una richiesta di autorizzazione, forse il corteo si è mosso in modo indisciplinato, ma vi partecipavano studenti e studentesse non armati, animati solo dal desiderio di pace, dopo anni in cui non si erano mossi quasi per nulla, se non per i Fridays for Future di Greta Thunberg. Ecco, quella folla colpita nei tumulti milanesi del 6-9 maggio 1898 può forse essere paragonata a questo corteo di manifestanti che diceva “stop alla guerra”. Ciò che rassomiglia è l’evidente sproporzione fra il carattere della protesta, all’epoca originata dall’aumento del pane, oggi dal desiderio di pace, e la brutalità della repressione.
Come posso insegnare ai miei studenti e alle mie studentesse che “libertà è partecipazione” se partecipare significa poter essere feriti? Come posso insegnare loro a essere vigili, a osservare la Costituzione, a essere critici, e contemporaneamente dire loro: “Non abbiate paura e fidatevi”? Come posso insegnare a partecipare, se i primi segnali emessi vengono soffocati?