(Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2024)
Nel 2016 un report di Human Rights Watch sulle attiviste per i diritti umani sudanesi titolava Good Women Don’t Protest, citando la frase di un poliziotto durante le manifestazioni: “Siete ragazze, la protesta non fa per voi. Le brave ragazze non protestano”. Questa è tuttora l’opinione di molte società patriarcali del mondo nel confrontarsi con i movimenti femministi. In Africa, però, il vento sta cambiando. Il 27 gennaio scorso un folto gruppo di donne manifestava per le strade di Nairobi buttandosi a terra, fingendosi morte, i loro cartelli gridavano Stop Killing Us, basta ucciderci e Say Their Names, dite i loro nomi. Protestavano contro l’ondata di femminicidi che ha sconvolto il Paese dall’inizio dell’anno.
Secondo il Feminicide Count Kenya, una Ong fondata nel 2018, sono state 152 le donne uccise nel 2023 e circa cinquecento tra il 2017 e il 2024. Una di loro, Starlet Wahu, sorella di un famoso predicatore molto seguito sui social media, era in un bnb al momento dell’omicidio. Anche la seconda giovane vittima al centro del dibattito pubblico, Rita Waeni è stata uccisa dal compagno in un appartamento in affitto. Le autorità hanno risposto ponendo l’accento su questo particolare, limitando le strutture ricettive senza licenza. Sui social media le donne si sono chieste perché un dettaglio così irrilevante, come l’affitto a breve termine del luogo del delitto, abbia colpito più delle orribili mutilazioni che hanno subito i corpi delle donne. Sui giornali locali le vite delle ragazze, entrambe ventenni, sono state analizzate scrupolosamente, come se frequentare ambienti diversi dalla propria famiglia d’origine o addirittura aver affittato una casa fuori dalla regione di provenienza fosse un pretesto per giustificare le violenze.“Ci chiediamo ‘cosa ha fatto lei?’ invece di ‘perché l’ha uccisa?’”, scrivono le attiviste del Feminicide Count Kenya.
Durante la manifestazione del 27 gennaio, due uomini hanno registrato un video in cui accusavano le donne di farli soffrire e, senza mezzi termini, le minacciavano: “Vi uccidiamo noi”. Nel Paese, come in altri, è infatti molto presente il fenomeno degli influencer machisti, come Andre Kibe o Amerix, che, sull’onda del successo di Andrew Tate, raccolgono lo scontento dei giovani maschi, identificando nell’emancipazione femminile la causa della loro insoddisfazione. A molti uomini l’onda femminista fa paura, ed è osteggiata soprattutto quando viene legata alla progressiva e inesorabile influenza occidentale, dovuta alla colonizzazione prima, alla globalizzazione poi. La resistenza culturale, condivisibile e importante per la sopravvivenza storica delle comunità, viene scambiata con l’attaccamento morboso al nucleo familiare di stampo patriarcale. Così le donne sono costrette a nuove forme di resistenza.
Per esempio, all’interno delle società masai, tradizionalmente gestite dagli uomini, una nuova generazione di donne assume ruoli di leadership via via più influenti. Diverse organizzazioni locali come la Masai Women Empowerment Organization (Mweo), creano piccole aziende al femminile, per conquistarsi uno spazio all’interno delle comunità, incentivando la parità di genere a livello economico. Alle donne masai, infatti, è proibito possedere proprietà e accumulare beni materiali e denaro. Solo il 10% di loro riesce ad accedere all’istruzione secondaria e, non potendo ereditare, sono spesso costrette a matrimoni di convenienza per poter mantenere le famiglie. Non solo, ma usanze come la mutilazione genitale femminile rituale, sono presentate come baluardi di una cultura ancestrale resistente. Vietata dal 2011, secondo l’Unicef, la mutilazione genitale femminile riguarda ancora quasi tre ragazze masai su quattro a partire dai dodici anni. In alcune aree, come in Kuria, nella regione di Migori, nel Kenya occidentale, secondo un articolo del “Guardian”, su quarantatré tribù masai, solo cinque non la praticano.
Sebbene il Paese sia tra i firmatari del Protocollo di Maputo e della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), il movimento #EndFemicideKe sostiene che esiste un ampio divario tra questi obblighi legali e le attuali pratiche statali. Le donne ora chiedono che il femminicidio sia legalmente riconosciuto come un crimine distinto dall’omicidio, e che siano istituiti nelle scuole dei corsi contro la discriminazione di genere. Come le loro compagne argentine e sudafricane, le femministe keniote riconoscono nella violenza contro le donne un problema strutturale, che non può essere affrontato unicamente dal sistema giudiziario.
“In molte zone è normale che una donna venga ‘disciplinata’ dal marito, alcune persone lo vedono addirittura come un segno di affetto”, spiega Shyleen Bonareri Momanyi, direttrice del Young Women’s Leadership Institute di Nairobi: “Idee patriarcali come queste, unite alle disuguaglianze strutturali tra uomini e donne nella società keniota, creano un terreno fertile per gli abusi”.
Sull’orlo della fine del patriarcato, l’uomo di ogni parte del mondo vede il proprio dominio – politico, economico, religioso o tribale – venir meno, e la reazione può essere violenta. L’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, ha riferito che l’Africa, nel 2022, ha raggiunto il numero più alto di donne uccise da membri della famiglia, con ventimila casi, una media di 2,8 donne e ragazze ogni centomila.
Anche in Somalia febbraio è stato un mese di proteste dopo l’omicidio di tre donne nel giro di una settimana, tutte uccise dai mariti. Amina Haji Elmi, direttrice dell’associazione Save Somali Women and Children, con sede a Mogadiscio, ha dichiarato: “Le donne somale sono vittime dei problemi causati dall’uomo e dalla sua violenza, come i conflitti armati e i disastri ambientali. Attualmente devono affrontare molte sfide, tra cui la mancanza di protezione da parte del governo”.
Anche qui, affrontando i limiti imposti dalla società, nuove generazioni di donne si fanno strada all’interno del panorama a prevalenza maschile. Le giornaliste di “Bilan Media”, per esempio, hanno aperto una redazione al femminile che si occupa dei problemi trascurati dai mezzi di informazione tradizionale. Hijab color cannella, giallo acceso, verde e blu, girano il Paese creando una rete femminista islamica, che aiuta a uscire dallo schema in cui i diritti delle donne siano un sistema importato e soprattutto imposto dall’Occidente. “Il femminismo mainstream bianco è dannosamente globalizzato e acritico nei confronti dei sistemi intersezionali di oppressione”, spiega Jessica Horn, attivista e scrittrice ugandese. Nella storia africana, racconta, si possono sempre trovare e rintracciare individui e collettività di donne che resistono al patriarcato nelle sue diverse forme. Per dare voce ai movimenti contro l’ostracismo proprio delle società religiose e patriarcali, serve una liberazione autentica, all’interno dei confini culturali propri del continente, secondo Horn.
In questo contesto, i social media stanno aiutando le persone a fare rete, a creare nuovi terreni di confronto. Internet ha aiutato le femministe a ricordare le attiviste che prima di loro hanno contribuito alla diffusione di diritti fondamentali, come Funmilayo Anikulapo-Kuti, nigeriana della prima metà del Novecento, che, tra le altre cose, è stata la prima donna a guidare un’automobile nel suo Paese. Da una decina d’anni, poi, gli hashtag con i nomi delle donne, delle ragazze e delle bambine stuprate o uccise hanno contribuito a portare i colpevoli davanti alla legge. Un primo caso è stato nel giugno 2013, quando Liz, una sedicenne del Kenya occidentale, è stata attaccata da un gruppo di uomini, che l’ha lasciata in fin di vita. Grazie all’hashtag #JusticeForLiz, la comunità, stanca dei soprusi e spaventata, ha raccolto un milione e duecentomila firme perché fossero trovati e puniti i responsabili. “Nonostante le numerose sfide, i nuovi media hanno dato voce alle preoccupazioni femministe, e hanno permesso a nuove reti basate su temi specifici di coalizzarsi, dando alle giovani una piattaforma per portare avanti il dialogo”, sostiene Nanjala Nyabola, scrittrice e analista politica, autrice del saggio Femminismo keniota nell’era digitale (2018).