(Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2024)
Nel suo editoriale su “terzogiornale” del 19 scorso, Rino Genovese (vedi qui) osserva che l’assassinio di Navalny (perché di assassinio indubbiamente si tratta, anche se le sue modalità rimangono abbastanza oscure, ma su questo torneremo più avanti) costituisce “una profonda ferita (…) inferta a un’opinione pacifista in Occidente” e che “da oggi sarà più difficile sostenere l’interruzione dell’invio di armi a Kiev da parte di coloro che temono il precipitare della crisi verso una guerra mondiale”. Dato che questo è indiscutibile, c’è da domandarsi perché Putin, o la sua cerchia, si siano resi responsabili di questo crimine, che indubbiamente gioca a sfavore di quella soluzione negoziata che la Russia, almeno stando a recenti dichiarazioni di Lavrov o del portavoce del Cremlino, Peskov, sarebbe pronta a proporre per far cessare il conflitto avviato due anni fa.
Prima di confrontare la risposta suggerita da Genovese con altre possibili, un’osservazione preliminare è opportuna: da due anni, ormai, stiamo assistendo a una continua criminalizzazione di chiunque si permetta di fornire un’interpretazione dei fatti diversa da quella del “pensiero dominante”. Questa criminalizzazione (sulla quale sono già intervenuto più volte, e mi scuso se mi devo ripetere, ma mi pare necessario) va dall’insulto (“pacifinti”, “putiniani d’Italia”, ecc.) fino all’accusa più infamante, quella di diffondere “disinformazione”, con la conseguente richiesta di estromettere da ogni dibattito sui media (soprattutto televisivi) dedicato alla questione ucraina “quei personaggi” che hanno il coraggio di presentare punti di vista contrari a quello mainstream (o che semplicemente ne differiscono; l’iterazione più recente di una richiesta del genere l’ho sentita nella trasmissione “Radio anch’io” del 23 febbraio, da parte di una “esperta” dell’Istituto affari internazionali).
È perfettamente possibile che questi punti di vista diversi siano sbagliati, o ingenui, o basati su una scarsa documentazione: ma il dovere di un’informazione che si arroga per principio il diritto di essere corretta sarebbe quello di dimostrare dove sta l’errore, non quello di ricoprire di contumelie chi, eventualmente, ci fosse cascato. Visto che “terzogiornale” è una delle poche sedi in cui si può intavolare una discussione serena, basata non sull’insulto ma sull’argomentazione razionale, vorrei esprimere il mio disaccordo, parziale, come si vedrà, con la risposta che Genovese fornisce all’interrogativo di partenza, cioè perché Putin abbia fatto assassinare Navalny.
Genovese sostiene che Putin abbia voluto anteporre i suoi interessi di politica interna, cioè la repressione feroce di qualunque tipo di dissenso, a quelli di politica estera, cioè l’apertura di spiragli su una possibile soluzione negoziata della guerra e anche lo scambio di Navalny con alcuni prigionieri russi detenuti in Occidente. Questa spiegazione, indubbiamente razionale, desta qualche perplessità. Infatti, da quello che sembra (ma le informazioni di cui disponiamo sono in parte discordanti, e forse viziate da punti di vista preconcetti), le possibilità di Navalny di influenzare l’opinione pubblica russa, e in particolare di provocare una sconfitta di Putin alle prossime elezioni presidenziali, erano davvero minime (certamente per il controllo della stessa opinione pubblica da parte di Putin, ma questo è un altro discorso). Molto più grave, al contrario, è la minaccia per la politica estera di Putin, che viene da un ulteriore inasprimento dell’atteggiamento di Stati Uniti e Unione europea nei confronti della guerra in Ucraina: anche se, in questo momento, le forze russe sembrano prevalere, chi può assicurare il capo del Cremlino che nuove forniture di armi, e (perché no?) anche di truppe, da parte occidentale, non possano cambiare radicalmente la situazione?
Come ho cercato di sostenere in un’altra occasione (vedi qui), ormai l’Occidente si è esposto troppo in questo gioco per ritirarsi rapidamente e in buon ordine. In conclusione, sarei propenso a credere che l’assassinio di Navalny sia stato casuale, cioè provocato dalle durissime condizioni di detenzione a cui il dissidente russo era sottoposto, forse aggravate da qualche particolare maltrattamento che è stata la causa immediata della sua morte (come proverebbero i vari lividi a quanto si dice ritrovati sul suo corpo).
Naturalmente, può darsi che io sbagli e che Genovese abbia ragione, nella spiegazione che suggerisce per un comportamento così irrazionale, ossia che il regime di Putin non sia altro che “un miserabile sottoprodotto” dello stalinismo, le cui campagne di terrore erano, almeno, pienamente efficaci: prova ne sia il tentato avvelenamento di Navalny di qualche anno fa, certo opera dei servizi russi, e non riuscito. Putin, in quell’occasione, disse più o meno che, se i suoi servizi vogliono avvelenare qualcuno, ci riescono sempre, affermazione contraddetta dai fatti. Questo suggerisce una spiegazione più generale, relativa non solo a Putin ma a tutta l’attuale dirigenza del Cremlino: l’incapacità di trovare i mezzi giusti per raggiungere i suoi (spesso assai discutibili) fini. Già invadendo l’Ucraina, Putin ha fatto un favore all’Occidente e tolto legittimità alle posizioni che aveva sostenuto in precedenza, almeno in parte giustificate: il timore di un allargamento della Nato e la difesa dei diritti dei russofoni del Donbass. Ora, facendo volutamente uccidere Navalny, avrebbe commesso un altro madornale errore di questo genere.
In conclusione, la spiegazione di Genovese può essere senz’altro valida quanto la mia, se non di più. Su un punto, comunque, credo che siamo d’accordo: “la pace si fa coi nemici, non con gli amici”, come diceva il grande pianista e direttore d’orchestra israeliano Daniel Barenboim, a proposito del conflitto israelo-palestinese. Così, con tutto l’orrore che possiamo provare per le imprese di Putin, e anche il disprezzo per la pochezza sua e dei suoi compari (Stalin era un genio del male, Putin poco più di un malfattore di periferia), non possiamo che continuare a batterci per una soluzione negoziata della guerra in corso. Chi continua a intonare lo slogan “pace sì, ma solo alle condizioni dell’Ucraina”, in realtà invoca (forse inconsapevolmente) la guerra. Può darsi che la guerra sia inevitabile (e le più recenti dichiarazioni delle massime autorità della Nato fanno pensare che loro per prime ne siano convinte), ma allora diciamolo con franchezza. E poi: perché non avviare la costruzione di rifugi antiatomici, come quelli già da molti anni diffusi in Svizzera? Potrebbe essere un modo per accelerare, una buona volta, l’impiego delle risorse del Pnrr.