(Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2024)
“L’Ucraina non dovrebbe affidarsi ai capricci di Elon Musk per difendere il proprio popolo”. Lo ha dichiarato Christophe Grudler, del gruppo Renew Europe al parlamento europeo, che guida il programma di connettività sicura del blocco. Un’affermazione che giunge nel momento in cui si entra nel terzo anno di un conflitto che sempre più si rivela una “net-war”, ossia uno scontro basato sulle forme di adattamento delle tecnologie digitali. L’elemento che induce l’Unione europea a svegliarsi dal letargo, contando su una naturale adesione delle grandi compagnie tecnologiche occidentali alla causa di Kiev, è vedere come ormai Starlink, la società che controlla la maggiore flotta di satelliti che girano sulle nostre teste, di proprietà del magnate sudafricano, offra i propri servizi anche ai russi, che li stanno usando per sfondare la resistenza ucraina.
Inizialmente (come ricostruisco nel libro Net-war: in Ucraina il giornalismo cambia la guerra, edito da Donzelli) Musk aveva risposto all’appello del governo ucraino a supportare l’azione di contrasto all’invasione russa. Il ministro ucraino alla Tecnologia aveva inviato un famoso tweet al miliardario, dicendogli “mentre stai colonizzando Marte ci stanno occupando”. La risposta fu la messa a disposizione, in poche ore, di una poderosa capacità di localizzazione di tutto quanto si muoveva sul territorio ucraino. Una massa di dati sensibili a disposizione non solo dei militari, ma di tutta la popolazione, che, proprio grazie a quelle informazioni, poté opporsi con successo alla famigerata colonna di blindati che, nei giorni di fine febbraio del 2022, puntava sulla capitale per decapitare il Paese.
Il decentramento di quei dati fu la mossa che fece capire come le tecnologie digitali siano funzionali a un modello sociale di partecipazione e distribuzione dei ruoli e delle decisioni. Infatti, fu la società civile che intervenne con la propria attitudine a raccogliere e scambiarsi dati nella vita ordinaria. Un’attitudine che portò migliaia di cittadini a individuare e georeferenziare i bersagli che venivano colpiti da droni maneggiati dagli stessi cittadini. Un tiro al bersaglio che, nella prima fase del conflitto, costrinse i russi a desistere dall’attacco alla capitale, avendo perduto gran parte dei propri arsenali blindati.
Ora qualcosa è cambiato. Intanto le armate di Mosca hanno fatto tesoro di quella bruciante lezione, e hanno cominciato anch’esse ad abilitare i propri uomini a un uso distribuito dei dati satellitari. Dati che sono rintracciati da società fittizie, gestite dai servizi del Cremlino, che li comprano sul mercato libero. La riconquista di Avdiivka, la città chiave del Donbass, occupata in questi giorni dalle truppe russe, è stata resa possibile da un uso massiccio di una mappatura del terreno realizzata in base alle informazioni satellitari, in grado di perimetrare ogni singolo oggetto rilevato, che diventa così un bersaglio per bombardieri e artiglieria. La promiscuità fra le truppe delle due parti, che arrivano a essere separate da poche decine di metri, rende anche difficile capire chi informa chi, cioè se davvero i russi usino autonomamente i flussi di dati di Starlink oppure riescano a intercettare quelli destinati agli ucraini. Siamo nel pieno di quella guerra ibrida teorizzata da una decina di anni dal capo di stato maggiore di Putin, Gerasimov. Una guerra che utilizza l’informazione per colpire direttamente l’avversario, sia destabilizzando la sua opinione pubblica, con una massiccia pressione sul web di fake news che raggiungono obiettivi contendibili, sia per guidare e dirigere gli armamenti con precisione chirurgica.
In questa logica, si pone un tema drammaticamente politico. Se le risorse tecnologiche sono sempre più miniaturizzate e decentrate, ossia accessibili a ogni soggetto in campo, fino al singolo individuo, e questo decentramento è però controllato da imprese private, che si sostituiscono agli Stati nell’abilitare conoscenze e informazioni strategiche, quale dialettica di poteri si sta configurando? La geopolitica, presunta scienza delle scelte degli Stati, sta diventando geomarketing, ossia un’opportunistica strategia di pura convenienza dei privati? E questi privati fino a quando potranno muoversi in contrasto con gli interessi e le necessità degli Stati di appartenenza?
Paradossalmente, dobbiamo riconoscere che la politica della Casa Bianca – rispetto ai maneggi speculativi di Musk, che cambia campo con disinvoltura, offrendo al miglior offerente le sue risorse tecnologiche – rimane comunque, per quanto possa essere criticata e avversata, uno spazio pubblico, sensibile a un controllo sociale, che invece lo speculatore privato non ha. Persino la bella addormentata sulla scena globale, l’Unione europea, sta pensando, dinanzi a simili imprevedibili acrobazie, di dotarsi di un proprio sistema satellitare in grado di assicurare connettività e georeferenziazione. Thierry Breton, il commissario per il Mercato interno dell’Unione, nonché architetto del piano, ha dichiarato, pochi giorni fa durante una conferenza di dirigenti e politici del settore spaziale, che l’obiettivo è quello di firmare entro Pasqua “il più grande contratto spaziale nella storia dell’Unione”, del valore di miliardi. Una tendenza che potrebbe avvitarsi in una corsa agli investimenti militari, se i venti di isolazionismo che soffiano sulle presidenziali americane dovessero prevalere, arrivando addirittura a un ridimensionamento, se non proprio a un ritiro, degli Stati Uniti dalla Nato. Uno scenario certo paradossale, dopo avere trascorso come sinistra almeno sessant’anni a chiedere lo scioglimento dell’Alleanza atlantica.
Ma oggi un impegno sul fronte delle tecnologie di sicurezza implica una padronanza di saperi e competenze che in Europa non hanno una massa critica competitiva. Per sopperire alla subalternità ai satelliti di Musk, basta un massiccio programma di lanci per mettere in orbita sistemi di monitoraggio, ma sulle risorse più sofisticate – come i dispositivi di intelligenza artificiale –bisogna allestire un vero Cern digitale, un equivalente a quel centro di Ginevra che inventò il web, ma poi non seppe gestirlo per mancanza di un’istituzione comunitaria che lo guidasse.
Non dimentichiamo che gli Stati nazionali si affermano nel Diciassettesimo secolo, dopo la pace di Vestfalia, proprio mediante la capacità di controllare la violenza, o l’uso della forza, come spiegò Carl Schmitt, attraverso il dominio sugli apparati militari, con il monopolio sulle tecnologie del tempo, tutte finalizzate al predominio militare. Ma, più in generale, gli Stati crescono impossessandosi di quel linguaggio con cui è scritto il libro della natura, secondo la lezione di Galilei, che è la matematica. Nella contesa con l’autorità ecclesiale, che esercitava allora il magistero sulla scienza, i grandi centri finanziari privati, promuovendo le grandi opere pubbliche, potevano programmare l’uso delle nuove soluzioni tecnologiche: e questo fu il vero atto di nascita del potere statale e di quello spazio pubblico che ridisegnarono la storia. Su questo controllo pubblico si è ora abbattuta la tempesta digitale, che, confiscando la domanda di autonomia individuale e indirizzandola contro l’invadenza delle tecnocrazie statali, ha scomposto gli apparati statali, sostituendoli anche nelle più delicate funzioni belliche.
L’assenza di un pensiero di sinistra che ritrovi, proprio nella ridefinizione di “spazio pubblico”, il primato di un interesse collettivo sulla pluralità dei singoli tornaconti, riduce la dinamica in campo a una competizione fra élite di comando, pubbliche e private. La guerra – nell’accezione di un conflitto ibrido, in cui l’egemonia culturale e comunicativa sposta gli equilibri ancor più degli armamenti, e può essere inibita solo se si riesce a contrastare questa pressione, questa infiltrazione nei processi cognitivi – è il terreno di coltura di un pensiero strategico che rimetta in campo la potenza di una pace come organizzazione di un interesse comune e non semplice petizione di principio. Se, secondo Hannah Arendt, le guerre non restaurano diritti ma impongono poteri, oggi dobbiamo ragionare su come contrastare, con procedure civili e pacifiche, quei poteri tecnologici, sperimentati e assemblati nelle guerre, così da non concedere campo libero né alla speculazione privata né ai regimi autocratici.