(Questo articolo è stato pubblicato il 2 febbraio 2024)
L’idrogeno verde permette di superare il problema della discontinuità delle energie rinnovabili e di accelerare la transizione energetica, come richiesto dalle strategie dell’Onu e dell’Unione europea. Garantisce, inoltre, quella sovranità energetica che i fossili non possono darci. È allora naturale domandarsi a che punto siamo, nel nostro Paese, per una strategia di transizione verso l’idrogeno verde introdotta dalla Commissione europea con la Comunicazione 301 del 2020, in cui si legge che “l’idrogeno da rinnovabili farà parte del sistema energetico integrato del futuro, insieme a un uso più efficiente e circolare delle risorse. L’applicazione su larga scala e a ritmi sostenuti dell’idrogeno pulito è decisiva affinché l’Unione europea possa raggiungere obiettivi climatici più ambiziosi, riducendo le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 % entro il 2030”.
Questa strategia prevede investimenti cumulativi fino a 470 miliardi di euro per l’idrogeno e 340 miliardi per incrementare la capacità di produzione di energia solare ed eolica, fino a 80-120 GW destinata agli elettrolizzatori. Si tratta di un mercato supplementare da 630 miliardi di euro l’anno. Nella sua visione strategica per un’Unione climaticamente neutra, pubblicata nel novembre 2018, l’Europa prevede che la quota di idrogeno nel mix energetico europeo crescerà dall’attuale 1% al 24% entro il 2050, per un totale di un milione di tonnellate annue di idrogeno pulito al fine di soddisfare il 24% della domanda mondiale di energia entro il 2050, con investimenti calcolati – dall’Hydrogen Economy Outlook di Bloomberg del 2020 – in settecento miliardi di euro annui.
Lo sviluppo delle diverse filiere dell’idrogeno verde, e l’installazione delle relative tecnologie, presuppongono anche la creazione di moltissimi posti di lavoro diretti e indiretti per figure professionali che ancora non esistono, e per cui servirebbe un programma formativo straordinario. Gli obiettivi indicati dall’Unione europea sono infatti molto ambiziosi: 6.000 MW di elettrolizzatori installati in Europa entro il 2024 e 40.000 MW entro il 2030, data entro la quale l’intero ecosistema dell’idrogeno necessiterà di investimenti pari a oltre cento miliardi di euro.
La strategia dell’Italia dovrebbe mirare a promuovere una filiera italiana dell’idrogeno verde per contribuire al raggiungimento di questi obiettivi, con interventi specifici in settori quali l’edilizia, le utenze domestiche, il blending con il metano, il trasporto leggero e quello pesante, e alcuni cicli industriali energivori, come quelli del cemento e dell’acciaio. Una stima provvisoria degli investimenti necessari per la ricerca e lo sviluppo degli elettrolizzatori può essere indicata in quattro miliardi di euro, entro il 2030, mentre venti miliardi in dieci anni saranno necessari per gli impianti di energia rinnovabile necessari a produrre l’elettricità per quegli elettrolizzatori, e cinque-sei miliardi per le infrastrutture di trasporto, distribuzione, accumulo e stazioni di rifornimento stradale. Il che significa tre miliardi di euro all’anno, gran parte dei quali ottenuti da fondi europei e da partecipazioni di strutture private.
Al momento però, in Italia non c’è un piano nazionale per l’idrogeno, solo delle semplici linee guida “preliminari” che hanno ricevuto aspre critiche a causa della loro genericità e inadeguatezza (vedi qui). Il ritardo diventa ancora più evidente se confrontato con le strategie nazionali di Paesi europei avanzati. Per esempio, in Francia esiste, fin dal 2014, la cooperativa di radio taxi a idrogeno Hype, con oltre seicento vetture (principalmente Toyota Mirai), che gestisce anche una rete di distributori di idrogeno appositamente realizzata dalla cooperativa.
La Germania di Angela Merkel, ispirata dalla visione di Jeremy Rifkin, si è impegnata fin dal 2006 in un programma ventennale per la ricerca, lo sviluppo e l’applicazione in tutti i settori, delle varie tecnologie dell’idrogeno (alcaline, polimeriche e a ossidi solidi). Il programma si chiama N.O.W.(vedi qui)ed è dotato di due miliardi di euro annui (quaranta miliardi in venti anni) per la realizzazione di intere filiere industriali e commerciali dell’idrogeno in edilizia, mobilità stradale, navigazione, aeronautica, trasporto ferroviario e servizi avanzati. Inoltre, in risposta alla strategia europea per l’idrogeno verde, la Germania ha annunciato, nello stesso anno, un programma supplementare da oltre sette miliardi di euro per la diffusione dell’idrogeno da fonti rinnovabili (per approfondire, vedi qui).
Gli “ecosistemi dell’idrogeno” per la sovranità energetica
La strategia europea prevede che, in ogni Paese, si sviluppino le Hydrogen Valley (veri e propri “ecosistemi europei dell’idrogeno”), in cui un certo territorio omogeneo possa sviluppare simultaneamente la domanda e l’offerta di idrogeno verde per tutte le utenze finali di questa tecnologia (per esempio, promuovere le auto a idrogeno, anche vietando, dal 2035, i motori termici a fonte fossile, soddisfacendo la domanda di idrogeno come carburante con l’installazione di distributori appositi). Ogni Hydrogen Valley, a sua volta, è composta dai cosiddetti “poli dell’idrogeno”.
La strada indicata dall’Europa è chiara, e altri Paesi la stanno percorrendo già da molto tempo. L’Italia è in ritardo su tutto, ma può e deve impegnarsi per la transizione ecologica, perché lo sviluppo dell’idrogeno permette di guardare al futuro senza preoccuparsi delle guerre di Putin o degli inaffidabili regimi petroliferi arabi. I fossili, infatti, li hanno solo loro, mentre il sole e l’acqua li abbiamo tutti: questo ci prospetta un futuro in cui i grandi monopoli petroliferi perderanno importanza a tutto vantaggio delle piccole e medie imprese, e della nostra società civile ed economica.