(Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2024)
Lì dentro, all’“Unità”, ci ho vissuto e lavorato trentacinque di quei cento anni che formano l’anniversario tondo, e impegnativo, compiuto dalla “nostra testata” il 12 febbraio, secondo l’implacabile calendario che fa coincidere l’atto di nascita del più diffuso e più letto “giornale di partito” della storia dell’editoria italiana con il mese di lutto dei lavoratori di tutto il mondo per la scomparsa di Lenin. Mentre l’atto di morte, e persino l’attuale certificato di esistenza in vita – dopo numerose chiusure e riaperture, fallimenti e terremoti societari – , sono controversi e incerti, per via dell’uscita non tanto nelle poche edicole rimaste, quanto in alcuni talk show, di una risorta “Unità”, che ha troncato i rapporti con la quasi totalità della vecchia redazione, avendo un ancoraggio politico-editoriale molto sospetto: il gruppo che si è aggiudicato il giornale in un’asta fallimentare fa capo proprio a quel Matteo Renzi accusato, dalla penultima redazione, di avere usato (quand’era segretario del Pd) il giornale come un kleenex e di averlo mandato in fallimento.
Noi reduci di un passato certamente più glorioso faremmo volentieri a meno di rimanere prigionieri dei ricordi, ma la nostalgia è una brutta bestia, ed è difficile evitare di incontrarla. Così ci consoliamo con un paio di buone notizie sul piano della possibilità di studio e approfondimento: a Milano, nel centenario, l’archivio di Stato ha annunciato di avere ritrovato e messo in salvo, e di avere iniziato a ordinare e studiare, gli scatoloni del nostro archivio (che era stato dato per disperso), mentre a Roma, alla mostra commemorativa di Enrico Berlinguer, nell’ex Mattatoio del Testaccio, il pomeriggio di domenica scorsa se n’è andato in dibattiti intorno al giornale sorprendentemente affollati.
Il tema dunque è: “l’Unità” nacque, visse e morì come giornale di partito (anzi per lunghi anni, fino al 1991, sotto la testata figurava la scritta: “organo del Partito comunista italiano”), ma, secondo una famosa indicazione di lavoro impartita da Palmiro Togliatti a giornalisti e maestranze, dopo la Liberazione doveva diventare un giornale-giornale, un “Corriere della sera dei lavoratori”, coltivando informazione, vera e competitiva con i grandi giornali, e formazione politica di gruppi dirigenti. Molti di noi, arrivati al giornale con una forte motivazione politica, si trovarono a raccontare, consumando le classiche suole, con gli strumenti professionali della cronaca e dell’inchiesta giornalistica, fatti della grande storia.
Faccio due esempi. Paolo Soldini, corrispondente da Berlino il giorno della caduta del Muro, ha raccontato sul sito “Strisciarossa” (che raduna molti ex dell’“Unità”) di essersi trovato “al posto giusto nel momento giusto, proprio il sogno della perfezione per ogni giornalista”. E che “il tono con cui la mattina del 10 novembre uscì il quotidiano che sotto la testata esibiva le parole ‘organo del Pci’ rifletteva l’entusiasmo anche un po’ ingenuo del suo inviato a Berlino. Il quale doveva sorvolare pudicamente sul fatto che, sullo stesso giornale 28 anni prima, un suo predecessore aveva inneggiato alla costruzione del vallo antifascista e denunciato le manovre dell’inquietante personaggio Willy Brandt, allora borgomastro di Berlino Ovest, mentre i vopos mettevano un mattone sull’altro”.
La mia giornata particolare invece è a Palermo, quando al tribunale dove nel 1973, ai primi passi della mia corrispondenza dal capoluogo siciliano, a digiuno di diritto e di procedure – in un periodo di pace mafiosa per le strade della città, mentre si celebrano gli appelli di maxiprocessi ante litteram, che seguo più che altro per impadronirmi della materia –, incontro Rocco Chinnici, un esperto e simpatico magistrato che guida da qualche settimana l’ufficio istruzione. Mi presenta, lungo il corridoio del primo piano, un giovane giudice proveniente da Trapani: “L’ho chiamato io, per formare un pool come fanno in procura a Torino contro il terrorismo, si chiama Giovanni Falcone, anche lui come noi due ha frequentato a pieni voti il nostro liceo Umberto, caro Vincenzo, ne sentirai ancora parlare”.
E quello fu il mio “posto giusto” per tanti anni… Fummo il quotidiano nazionale che per primo e meglio degli altri segnalò la gravità del terrorismo mafioso, che colpì uno per uno i vertici della polizia, della magistratura, della Regione, dell’opposizione, in generale delle istituzioni di Palermo – Giuliano Costa Russo, Terranova, Mattarella, La Torre, lo stesso Chinnici – e, nel decennio successivo, Falcone e Borsellino. Fummo “giornale di parte”, e siccome la nostra parte, almeno in quella fase, fu la più vicina a quelle postazioni democratiche che venivano investite dall’offensiva mafiosa fummo un giornale-giornale. Avevamo conosciuto – e amato – Falcone prima che diventasse Falcone.
Ma il Muro di Berlino cade solo una volta. E di Falcone non ne ho più conosciuti. “L’Unità” o qualcosa di simile potrà rinascere? Che si possano verificare nuovamente condizioni simili, e che la sinistra possa costruire uno strumento simile, almeno ambivalente di informazione e di crescita politica, ho i miei dubbi; ma certamente non nuoce studiare e discutere il caso “Unità”, che ha cento anni e li dimostra tutti.