(Questo articolo è stato pubblicato il 5 aprile 2024)
La vicepresidente venezuelana, Delcy Rodríguez, ha presentato martedì 2 aprile una legge di iniziativa governativa, il cui fine è la lotta al fascismo e al neofascismo, e alla quale il parlamento, controllato dai chavisti, ha già dato il suo benestare in prima lettura. Il testo, che consta di trenta articoli, si propone di “stabilire i mezzi e i meccanismi per preservare la convivenza pacifica e la tranquillità pubblica”, e di “proteggere la società venezuelana dall’emergere di qualsiasi espressione di ordine fascista, neofascista o di natura simile”.
La nuova norma assegna al presidente della Repubblica il compito di nominare un’Alta Commissione contro il fascismo, il neofascismo e altre espressioni, la cui funzione sarà quella di dettare le linee guida, i regolamenti e le politiche finalizzate a proibire messaggi, organizzazioni, riunioni e manifestazioni fasciste e neofasciste in Venezuela. Per essere definitivamente approvata, la legge dovrà passare attraverso una seconda discussione in parlamento. Il progetto prevede la reclusione fino a dodici anni e multe tra i cinquantamila e i centomila dollari, e vieta l’accesso a cariche pubbliche a coloro che, prima dell’elezione, hanno “adottato comportamenti che promuovono o fanno direttamente apologia” del fascismo.
La proposta è l’ultimo provvedimento, in ordine di tempo, di un governo che ha aperto le ostilità contro il partito di destra di María Corina Machado, Vente Venezuela, da quando è stata eletta, a stragrande maggioranza, come candidata alla presidenza nelle primarie (vedi qui) tenute dall’opposizione nell’ottobre 2023, risultando favorita, secondo la maggioranza dei sondaggi, in una corsa contro Maduro. Per fare un esempio, l’anno scorso un sondaggio le ha dato il 70% di sostegno, rispetto all’8,3% di Maduro.
Il giro di vite risale all’inizio dell’anno, e ha portato alla incarcerazione di diversi membri della formazione politica di destra, con la pesante accusa di essere promotori o comunque coinvolti in cospirazioni tese a liquidare fisicamente il presidente Maduro. Quello stesso che ha etichettato il partito di Machado come “movimento terroristico”. Non a caso, quindi, María Corina Machado, principale rivale del presidente, mercoledì 3 aprile, ha denunciato che rischia di essere arrestata in modo “ingiustificato”, e ha fatto sapere di avere inviato una lettera ai diciotto Paesi, più l’Unione europea, che hanno partecipato alla conferenza sul Venezuela di Bogotà, il 25 aprile 2023, incentrata sull’alleviamento delle sanzioni in cambio di condizioni elettorali accettate dall’opposizione.
La nuova iniziativa dell’esecutivo – ripresa da quanto già fatto con successo da Daniel Ortega in Nicaragua, o da Putin in Russia – è tesa a fare fuori i candidati sgraditi al sistema, ed è perciò destinata ad acuire lo scontro con una opposizione agguerrita, finalmente unita, che vede buone possibilità di vittoria alle prossime elezioni presidenziali del 28 luglio. Di fatto, prelude alla messa fuori legge dei partiti politici non graditi al governo.
Il rischio che l’establishment venezuelano sa di correre è quello di riportare il Paese all’isolamento internazionale, da cui era parzialmente uscito grazie alla guerra in Ucraina e alla crisi mediorientale, che hanno reso nuovamente appetibili le sue riserve petrolifere sui mercati mondiali. Grazie anche all’accordo di Barbados dello scorso ottobre, quando – mediatrice la Norvegia – gli emissari di Maduro e la principale alleanza dell’opposizione avevano individuato una strada che avrebbe dovuto portare a elezioni corrette e trasparenti.
La firma, da parte sia del chavismo sia dell’opposizione, di un accordo che avrebbe dovuto riportare la normalità in Venezuela, il cui presidente era stato accusato di avere vinto la sua ultima elezione grazie ai brogli, prevedeva l’accesso ai media e la garanzia che qualsiasi candidato presidenziale potesse candidarsi alle elezioni se fosse legalmente autorizzato a farlo. Sta di fatto che l’auspicato ritorno della pace tra governo e opposizione venne salutato, da parte di Maduro, con il rilascio di alcuni prigionieri, e, dagli Stati Uniti, con una revoca di sei mesi delle sanzioni imposte su gran parte dei settori petrolifero, minerario e finanziario del Venezuela. Mentre la data per l’estensione della revoca, o per la reintroduzione delle sanzioni, è quella del prossimo 18 aprile.
L’addolcimento delle sanzioni, negli ultimi sei mesi, ha fatto sì che i profitti petroliferi del Venezuela, secondo le previsioni, raggiungeranno quest’anno i ventimila milioni di dollari, rispetto ai dodicimila milioni del 2023; e i dati dell’inflazione, male di cui il Paese soffre da anni, hanno registrato un sensibile decremento. Del resto – se Maduro non può permettersi di rischiare di perdere le elezioni, con la minaccia di essere perseguito dalla Corte internazionale dell’Aia per violazione dei diritti umani – gli Stati Uniti hanno recentemente ricordato, con John Kirby, consigliere per la Sicurezza nazionale, che gli arresti dei membri del partito di Machado “ci fanno riflettere sulla serietà” degli impegni del governo venezuelano, mentre quello statunitense “rimane disposto a considerare una riduzione delle sanzioni” se il regime cambia atteggiamento. Un’eventualità che pare farsi più remota, visto quanto è accaduto nelle ultime settimane riguardo alla presentazione delle candidature alle presidenziali.
Pur avendo vinto le primarie dell’opposizione ed essere stata individuata come la candidata alle elezioni presidenziali del 28 luglio, Machado si è vista impedire l’esercizio di cariche pubbliche per quindici anni. Il che rende impossibile la sua partecipazione alla consultazione elettorale. Dal canto suo, il governo nega di avere violato l’accordo di Barbados, poiché è stato creato un meccanismo per la revisione dei casi di squalifica dei candidati e, in quelli di Machado e di altri esponenti dell’opposizione, le decisioni sono state ratificate dalla Corte suprema di giustizia, peraltro ampiamente manovrata dall’esecutivo.
Insieme con tutta l’opposizione della Mud (Tavolo dell’unità democratica), Machado ha indicato allora l’accademica ottantenne Corina Yoris come sua sostituta, che però, del tutto inspiegabilmente, non ha potuto registrare la propria candidatura online il 25 marzo, giorno in cui scadeva il termine per le candidature; mentre a Maduro la cosa riusciva senza alcuna difficoltà. Il giorno seguente, l’autorità elettorale ha confermato la registrazione di altri dodici candidati, in buona parte fedeli al regime, o considerati come falsi oppositori totalmente innocui. Senza che il governo spendesse una parola per spiegare l’accaduto. Ciò ha fatto sì che l’opposizione abbia deciso di iscrivere l’ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, con lo “scopo di potere preservare la possibilità della Mud, e continuare così gli sforzi affinché Nicolás Maduro permetta la candidatura dell’opzione elettorale che liberamente” deciderà l’opposizione. González può essere infatti sostituito fino al 20 aprile.
Di fronte a ciò, i presidenti della Colombia e del Brasile, che finora avevano sostenuto sulla scena internazionale Nicolás Maduro, hanno criticato la circostanza che a Corina Yoris non sia stata permessa la registrazione come candidata dell’opposizione nelle prossime elezioni presidenziali. Lula e Petro hanno stigmatizzato l’impossibilità di Yoris di registrare la propria candidatura presso il Consiglio nazionale elettorale venezuelano, impedendole così di correre contro Maduro. Il governo di Bogotà ha espresso la necessità di un “processo elettorale presidenziale, libero, giusto e competitivo”, e ha esortato il governo e l’opposizione a rispettare l’accordo raggiunto tra le due parti a Barbados al fine di facilitare la normalizzazione politica del Venezuela, nella cui negoziazione la Colombia ha agito come osservatore. Se Petro ha dichiarato che “la magia di Chávez è stata quella di proporre la democrazia e il cambiamento del mondo. La rivoluzione di oggi è: trasformare il mondo, approfondendo la democrazia”, Lula ha definito “grave” il fatto che Yoris non abbia potuto registrare la propria candidatura, aggiungendo che “non ha alcuna spiegazione giuridica o politica vietare a un avversario di essere un candidato”. In ogni caso – ha sottolineato il presidente del Brasile – le autorità venezuelane non hanno dato spiegazioni sul perché la registrazione di Corina Yoris non sia stata permessa. La risposta di Caracas non si è fatta attendere: il ministro degli Esteri venezuelano ha accusato la Colombia di fare “un passo falso” e di commettere “un atto di maleducata interferenza in questioni che sono solo di competenza dei venezuelani”, “spinta dalla necessità di compiacere il Dipartimento di Stato” degli Stati Uniti.
È riuscito a iscriversi pochi minuti prima della scadenza, il governatore dello Stato di Zulia, Manuel Rosales, già candidato nel 2006 contro Hugo Chávez, che non ha nemmeno partecipato alle primarie dell’opposizione. Il suo partito lo descrive come un “uomo del dialogo”, ma l’opposizione lo vede come un burattino, che già in passato ha calato le braghe, ed esclude che possa diventare il suo candidato.
Senz’appello il giudizio di José “Pepe” Mujica, secondo cui la situazione in Venezuela è “deplorevole”, perché nel Paese “sembra che giochino alla democrazia, però non giocano alla democrazia”. Ciò che è chiaro è che in Venezuela non c’è il rispetto elementare per l’opposizione, e questo disturba e crea una situazione in cui non si può parlare di democrazia – ha affermato qualche giorno fa il vecchio saggio della sinistra latinoamericana a una manifestazione del Frente amplio in Uruguay. Ma mentre i senatori del partito di governo uruguaiano hanno approvato, giovedì 4 aprile, una mozione di condanna per quello che considerano il “regime dittatoriale” di Maduro, i senatori del Frente non hanno sostenuto l’iniziativa.
Intanto Maduro sembra avere raggiunto il fine che si proponeva: da candidato perdente a sicuro vincitore in elezioni addomesticate, in cui si confronterà con candidati non rappresentativi, che gli serviranno soltanto per dare una patina di legittimità alla tornata elettorale. Per il momento, la lista approvata dal Consiglio nazionale elettorale ne annovera tredici. In primo luogo, lui, Nicolás Maduro (Gran Polo Patriótico); e, a seguire, Manuel Rosales (Nuevo Tiempo), Enrique Márquez (Centrados), Edmundo González (Mud), Antonio Ecarri Angola (Alianza del Lápiz e Avanzada Progresista), Daniel Ceballos (Arepa e Voluntad Popular), Luis Eduardo Martínez (Acción Democrática, Movimiento Republicano e Bandera Roja), Juan Carlos Alvarado (Copei), Claudio Fermín (Soluciones Fermín), Benjamín Rausseo (Partido Confederación Nacional Democrática), Javier Bertucci (El Cambio), José Brito (Primero Venezuela, Venezuela Unida e Unidad Visión Venezuela), Luis Ratti (Partido Derecha Democrática Popular). Ma il braccio di ferro continua.