(Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2024)
Siamo in guerra contro la verità, o in guerra per la verità, in una guerra che ha confuso le menti e i discorsi in una cacofonia di voci instabili che dicono tutto e il contrario di tutto. Ma che cos’è la verità oggi? Cosa stiamo davvero dicendo quando diciamo che un discorso è vero e un altro falso? È qualcosa là fuori, al di là del discorso, o piuttosto una proprietà del linguaggio?
È una guerra che comincia con la filosofia occidentale, quella che già Platone combatteva contro i sofisti della città, contro i retori, i venditori di incertezze. Platone era un convinto sostenitore della verità come scopo ultimo della filosofia. Oggi la filosofia è ben più scettica sull’esistenza di qualcosa come la verità al di fuori di noi, che la mente perfetta possa riuscire a contemplare con l’esercizio virtuoso delle sue facoltà. Eppure, la verità non sembra essere scomparsa dai nostri discorsi e dalle nostre preoccupazioni: è alla base delle nostre posizioni politiche, delle nostre decisioni, del nostro senso morale. Siamo i figli del Ventesimo secolo, un secolo che ha cercato di smantellare la nozione di verità.
“La verità è l’accordo tra l’intelletto e l’oggetto”, diceva Tommaso d’Aquino; essa è “l’accordo tra la cognizione e il suo oggetto”, secondo le forme della nostra cognizione, affermava Kant. Ma niente è più difficile da definire di questo accordo, di questa relazione misteriosa che fa sì che il nostro pensiero di un cane sia vero se corrisponde al cane lì davanti a noi. Questione difficile. Sicuramente il secolo scorso ha dato il colpo di grazia all’idea di verità come corrispondenza con i fatti.
Friedrich Nietzsche fu colui che cominciò a dare i colpi più violenti al concetto di verità come un’essenza, un qualcosa al di fuori di noi. Perché vogliamo sapere la verità? Secondo Nietzsche vogliamo saperla per ragioni morali: per la pretesa di non ingannare noi stessi, per non vivere nell’apparenza e nell’errore. Nietzsche relega la verità a una vecchia e polverosa nozione di metafisica morale, un altro Dio da cui non siamo capaci di liberarci. Un altro colpo alla verità fu inflitto dalla filosofia pragmatista americana all’inizio del secolo scorso. “Ciò che può essere considerato vero è ciò che, pragmaticamente, ‘funziona’”. Così il filosofo John Dewey nel 1920. Nel Novecento la verità viene considerata superflua, non ha più spazio in un mondo post-metafisico.
Eppure, nel 2016, l’Oxford English Dictionary se ne esce con la parola “post-verità” come parola dell’anno, definita come ciò “che riguarda o denota circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto agli appelli alle emozioni e alle convinzioni personali”. Ma proprio quando l’era della post-verità emerge nel Ventunesimo secolo, ci sembra che questa nozione così vaga, misteriosa, sia centrale per capire come agire, cosa credere e a chi credere.
E questo riguarda anche l’educazione. La scelta della post-verità come nozione epocale indica che il nostro interesse per la verità non è stato dissolto dai sofisticati ragionamenti dei filosofi del Novecento. La verità resta un concetto intuitivo forte: ci sono affermazioni vere e affermazioni false, e il nostro desiderio di conoscere ciò che è vero, di conoscere la realtà, è pur sempre legittimo.
Come educare al tempo della post-verità? Ci si informa, prendiamo del tempo, si cerca di capire, di leggere, di studiare quello che dicono coloro che si interessano a un determinato tema, ma non basta, non serve qualche post o qualche articolo di giornale a farci entrare nei complessi meandri dei fatti. L’educazione al pensiero, critico e responsabile, si offre come quello scudo indispensabile per pensare e ragionare da sé e per sé, nutrendo la creatività, la soggettività e le sue aperture possibili.
A maggior ragione, è plausibile che oggi l’unica forma di educazione possibile e realmente utile sia quella che si connette con la vita vissuta dei soggetti, guidandoli a sviluppare il proprio potenziale intellettuale e umano. La scuola, oggi più di ieri, deve concentrarsi sul formare l’umano. Se c’è un’educazione che “serve”, questa deve tendere a formare menti e persone libere, fornite di strumenti ermeneutici per accedere allo spazio pubblico, con la capacità di esprimere un pensiero ben riflettuto, costruito, elaborato in autonomia. Cose peraltro descritte a suo tempo da Pierre Bourdieu (1966). Coloro che non esercitano il pensiero critico risultano “passivi”, “vittime” di una visione del mondo limitata e incentrata sul proprio ego (o sulla propria eco?); vedono il proprio punto di vista come l’unico sensato e i loro giudizi come i soli rilevanti. Chi pensa criticamente, invece, è in grado di esaminare gli argomenti pertinenti, sa sollevare domande e questioni, è capace di comunicare efficacemente. Chi ricerca la verità con metodo appropriato è dotato di pensiero critico. Chi non lo fa, no.