(Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2024)
Davanti alla Corte internazionale dell’Aia, l’11 e il 12 gennaio, si sono svolte le udienze pubbliche sull’istanza del Sudafrica contro Israele, presentata alla Corte il 29 dicembre scorso, nella quale si formula l’accusa di intento genocidario nell’azione militare a Gaza, con la richiesta di una misura urgente per fermarla. Le due udienze sono servite, prima all’accusa e poi alla difesa, per esporre i propri argomenti. L’informazione ha dato ampio spazio alla notizia, da quando Pretoria ha formulato l’intenzione di rivolgersi alla Corte. Si è discusso della consistenza dell’accusa, formulata sulla base della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, della sua opportunità, dei tempi di una sentenza della Corte (presso la stessa pende, dal 2022, il giudizio sulla legalità della presenza israeliana in Cisgiordania, chiesto dall’agenzia dell’Onu), dell’efficacia delle eventuali misure, della volontà di Israele di sottostarvi, del rischio di fomentare sentimenti antisemiti, dello squilibrio tra l’accusa a Israele e l’impunità di Hamas, ecc. Per di più, vi sono state prese di posizione da parte di taluni governi, come se si trattasse di una semplice disputa politica.
Dopo il 7 ottobre, giorno dell’attacco terrorista di Hamas contro la popolazione israeliana, è apparsa via via sempre più evidente la sproporzione della reazione del governo e dell’esercito israeliani a Gaza, con modalità che appaiono senza ombra di dubbio, peraltro come quelle di Hamas, contrarie alla Carta delle Nazioni Unite, al diritto internazionale, in particolare alle convenzioni di Ginevra che regolano i conflitti armati, al diritto umanitario per via dell’impossibilità di prestare soccorso alla popolazione civile colpita. La politica dei singoli Stati e quella delle istituzioni internazionali (come il Consiglio di sicurezza o la Commissione europea) si sono dimostrate incapaci di fermare l’orrore a Gaza, se si esclude una sporadica tregua. Il Tribunale penale internazionale ha inviato il suo procuratore, Karim Khan, a indagare in Israele e in Palestina; ma nessuna decisione è ancora stata presa, e, ammesso e non concesso che si intenda procedere, i tempi appaiono troppo lunghi per la sopravvivenza della popolazione palestinese a Gaza.
Tutto questo riempie quotidianamente gli organi di informazione internazionali e italiani, sia pure con molte autocensure e tanta disinformazione. Perché? La domanda a cui cercheremo una risposta è però un’altra: perché proprio il Sudafrica? Sono 193 gli Stati che potrebbero attivare l’azione della Corte internazionale di giustizia. Se togliamo Israele, perché, tra i restanti 192, proprio Pretoria ha deciso di prendere l’iniziativa? La domanda non è banale. Il Sudafrica ha avuto sempre relazioni diplomatiche con Israele, è il suo principale partner commerciale africano, e ha la più numerosa comunità di religione ebraica (cinquantamila persone) del continente, la decima nel mondo, Israele a parte. I rapporti datano dal 1948, dai tempi della vittoria del Partito nazionale in Sudafrica, responsabile del successivo regime di apartheid, e della quasi contemporanea nascita di Israele. Tel Aviv è stato un convinto sostenitore del regime di apartheid, malgrado i coloni nazionalisti afrikaners fossero decisamente antisemiti; ed è stato il primo Paese al mondo ad avere relazioni diplomatiche con i Bantustan, le entità statali fantocce create per isolare le comunità nere e impedire loro di partecipare alla gestione dello Stato sudafricano.
Oltre ai rapporti commerciali, la relazione di Tel Aviv fu particolarmente intensa nei campi militare e della sicurezza. Armi israeliane erano fabbricate su licenza in Sudafrica, e soprattutto Tel Aviv ha giocato un ruolo decisivo per permettere a Pretoria di dotarsi dell’arma nucleare, cui rinuncerà solo dopo il 1994, con l’avvento della democrazia e di Nelson Mandela, che interromperà anche la collaborazione militare. La comunità ebraica si allineò sostanzialmente con la politica di Tel Aviv, anche se non mancarono i dissidenti, alla luce della storia del popolo ebraico e di quello sudafricano, peraltro considerati come traditori, tanto da essere processati dal regime. Si pensi al ruolo avuto da Joe Slovo, militante ebreo comunista, nell’African National Congress, il partito di Mandela, arrestato nel 1962 e costretto all’esilio; sarà il primo bianco a far parte della sua direzione, fino a diventarne capo del braccio armato e poi segretario generale.
Pur mantenendo le relazioni diplomatiche e i rapporti commerciali, il governo sudafricano libero ha manifestato solidarietà al popolo palestinese. Scontato il pieno appoggio della popolazione sudafricana a quella palestinese, espressa in tanti modi e in diverse occasioni. A ogni crisi, in Cisgiordania e a Gaza, le relazioni diplomatiche si sono fatte tese, come lo sono ora, tanto da indurre Tel Aviv a ritirare, nel novembre scorso, il proprio ambasciatore da Pretoria. Il giorno dopo il parlamento sudafricano si pronunciava a larga maggioranza per la chiusura dell’ambasciata.
Stabilire una correlazione tra il regime di apartheid dei bianchi nei confronti dei neri sudafricani, e quello instaurato dal governo israeliano nei confronti del popolo palestinese, è una sorta di conclusione naturale, alla luce della vicenda dei due popoli. “Noi sappiamo bene che cos’è l’apartheid perché l’abbiamo conosciuto” – è l’ovvia conseguenza tirata dalla coscienza collettiva sudafricana. Questa correlazione, del resto, è riconosciuta oggi da diverse organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, da Amnesty International a Human Right Watch.
Il governo sudafricano, in questo senso, persegue una politica coerente nei confronti dei popoli sotto occupazione: per esempio, Pretoria sostiene senza esitazioni l’autodeterminazione del popolo sahrawi, il cui territorio è occupato per tre quarti dal Marocco. È significativo che nella cultura politica sudafricana il ricorso al diritto internazionale, per far rispettare il diritto dei popoli, sia un elemento importante. È stato così che il tribunale sudafricano di Port Elisabeth ha bloccato nel 2017 una nave con 55.000 tonnellate di fosfati della miniera di Boucraa, caricati nel porto di El Aiun (Sahara Occidentale occupato); l’anno successivo l’Alta corte ha decretato che i fosfati appartengono al popolo sahrawi e ordinato la vendita all’asta. Negli ultimi anni, il Sudafrica si è inoltre posto alla testa di quello che è ormai comune chiamare il Sud globale, quella parte del mondo che intende riequilibrare i rapporti con l’Occidente. In particolare, nella vicenda di Gaza, ciò che viene rimproverato all’Occidente – di cui Israele è considerato una parte – è la politica del doppio standard: pronto a condannare le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale se compiute da altri governi, complice e silente quando le stesse violazioni sono fatte da Israele, com’è apparso evidente nel Consiglio di sicurezza. A questo punto, non dovrebbe più sorprendere l’iniziativa del Sudafrica. Non è frutto di una scelta improvvisata, dettata dall’urgenza, e non è opportunista, suggerita solo da ragioni geopolitiche. C’è da porsi semmai un’altra questione: perché si è dovuto aspettare il Sudafrica?