(Questo articolo è stato pubblicato il 9 gennaio 2024)
Esattamente il 9 gennaio di sedici anni fa, Steve Jobs lanciava il primo modello di iPhone, che avrebbe trasformato la conversazione telefonica in una vita aumentata, in cui ognuno di noi diventa più potente, intraprendente e soprattutto istantaneo. Tempo e spazio si concentrano confermando la regola di Marx, per cui il capitale gestisce lo spazio attraverso il tempo. In questi sedici anni sono stati venduti circa due miliardi e mezzo di apparecchi, nelle diverse versioni. Un abitante su tre del pianeta potrebbe aver avuto un iPhone. Un successo senza precedenti per un singolo marchio commerciale. Neppure la coca-cola ha mai avuto questa diffusione.
Anche perché Apple non è solo un marchio di un genere di consumo, ma identifica un archetipo di vita e ha dato forma a un’idea di bellezza ed efficienza genialmente intuita a suo tempo da Adriano Olivetti, ma realizzata sulla scena planetaria appunto da Steve Jobs, grazie alla maturazione di un mercato animato da una vitalissima figura di individuo, competitivo e ambizioso, che Olivetti non ebbe la fortuna di incontrare. Ma ora questa storia sembra declinare e volgere al termine.
Apple, per decenni la società più capitalizzata del mondo, che ha più volte superato la vetta dei tremila miliardi di valore sta – proprio negli stessi giorni di gennaio in cui celebra il suo trionfo – per essere superata da Microsoft, la regina del software che oggi si è buttata anima, corpo e borsa, considerata l’entità multimiliardaria degli investimenti, sull’intelligenza artificiale. In questo snodo, entrambe le imprese sfiorano la fantastica cifra di tremila miliardi. Con la differenza che il marchio creato da Bill Gates, che controlla OpenAi, proprietaria di ChatGPT, è in ascesa; mentre quello inventato da Steve Jobs, che continua a elaborare versioni sempre più poliedriche di telefonino, è in inesorabile declino. Un cambio di vertice che conferma come ormai il capitalismo cerchi strade nuove per conservare ed estendere il suo dominio, sostituendo la conquista di mercati materiali, ormai esauriti anche per la limitazione delle capacità fisiche del pianeta di reggere l’economia dello spreco liberista, con la trasformazione dell’evoluzione della specie.
Microsoft, non a caso, è l’azienda che ha di fatto privatizzato il web, con quella famosa lettera del suo fondatore, allora un talentuoso nerd, che a metà degli anni Settanta, annunciò che il software, fino ad allora del tutto gratuito, e che veniva prodotto proprio mediante lo scambio e le continue integrazioni da parte degli utenti, sarebbe stato commercializzato a pagamento. Una svolta epocale, consumata nell’indifferenza del mondo, e in particolare, anche allora, della cultura di sinistra che non percepì né l’avvento di una nuova forma di produzione della ricchezza, né tanto meno l’impronta di classe che vi si stava imprimendo, proprio con questo annuncio da parte di Bill Gates. Da allora Microsoft ha conosciuto stagioni diverse: da grande monopolista dei sistemi operativi dei computer individuali a gruppo sorpassato dai service provider che si lanciarono sul web, come Google e Facebook, e poi diedero forma all’economia dei social.
In quella fase Apple intravide una nicchia di mercato che divenne una voragine: l’integrazione del web con terminali mobili sofisticati nel design e nelle funzioni – come erano l’iPod, l’iPad e il grande jolly pigliatutto che è stato l’iPhone, nelle sue diverse ma tra loro concatenate versioni. Siamo nella prima decade del nuovo secolo, quella in cui esplode la potenza nomade della connessione, e l’individualismo diventa una forza sociale mediante le occasionali opportunità di connessione e di cooperazione che i terminali mobili assicurano.
Ora un nuovo strappo del mercato, che indica un nuovo stadio del dominio capitalista e della conseguente risposta che la sinistra dovrebbe elaborare: per rimanere alle metafore di Marx, si può dire che dal mulino digitale, quale è quello che si è affermato con il passaggio di millennio, in cui si produceva ricchezza, come ci aveva spiegato Manuel Castells, scambiando informazione, stiamo entrando nell’epoca del mulino immateriale, in cui il valore coincide con la formazione, o , come vedremo, con l’addestramento. Dopo aver conquistato e commercializzato il nostro corpo, mediante il lavoro fisico, e il nostro immaginario, mediante l’induzione al consumo, oggi la proprietà digitale muove all’attacco della nostra struttura neurologica e cognitiva, ponendosi come obiettivo una uniformità di linguaggi e di attività cerebrali dell’umanità.
Già nelle sue Lezioni americane, incompiute per la prematura scomparsa, Italo Calvino, a metà degli anni Ottanta, ci avvertiva che era il software, e non l’hardware, a guidare il mondo. Oggi potremmo dire: sono le protesi di intelligenza artificiale che determinano le opzioni di sviluppo. Dal software, grazie alla disponibilità dei dati – che da bene comune vengono recintati dal capitalismo come nuove enclosures immateriali –, arriviamo all’economia biotecnologica, in cui si sta contendendo la struttura genetica dell’individuo e aprendo la strada a una commercializzazione delle componenti più intime della nostra personalità. Anche su questo Calvino, addirittura nel 1967, aveva proposto una riflessione, rimasta del tutto incompresa, quando parlava, nelle sue conferenze intitolate Cibernetica e fantasmi, di una macchina scrivente che “metta in gioco tutti gli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti di umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori”. Solo uno straordinario scrittore poteva intercettare l’incubazione totalitaria del sistema di controllo economico.
Oggi siamo alla confisca di emozioni e sentimenti che, tramite i dati, diventano addestramento dei dispositivi di intelligenza artificiale, proponendo a ogni individuo un compromesso storico: la nostra autonomia decisionale per una capacità operativa aumentata e sostenibile. Non siamo nel regno delle turbe letterarie, ma nella pragmatica politica contemporanea, dove il dominio cerebrale è la forma più diffusa di gerarchia sociale.
Ancora l’irrequietezza di Marx, per le convulsioni che leggeva nelle forze animali del capitalismo, ci aiuta a mettere tutto con i piedi per terra. Nel Capitale, nel celeberrimo passaggio dell’ape e dell’architetto, scriveva: “Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera”. Nel mulino a vapore lo sfruttamento si realizzava nella fase in cui la celletta viene costruita materialmente, prima con la fatica e poi con il macchinismo. Oggi, invece, il luogo della contesa e della sovrapposizione sul lavoro avviene proprio nella fase dell’ideazione, in cui l’architetto deve pensare e organizzare mentalmente il proprio lavoro. È un salto complesso, in cui l’uomo diventa protesi della macchina: qualcosa che la destra aveva già metabolizzato un secolo fa – anche mediante gli strappi di Nietzsche e Heidegger, che avevano bruciato il mondo con la “rivoluzione conservatrice” antimoderna –, e che oggi quella stessa destra recupera in chiave populista, sostituendo il buco di ambizioni e futuro, lasciato dalla dissoluzione del socialismo, con la carica mistificatrice anti-elitaria, che illude le plebi di poter svolgere un ruolo, come diceva Hannah Arendt, “anche a costo della propria distruzione”.
L’intelligenza artificiale irrompe nelle nostre vite attraverso una nuova apparente democratizzazione. Come a partire dalla fine degli anni Settanta – prima con le connessioni in rete, poi con il personal computer, infine con la pratica delle relazioni dirette punto a punto mediante il web, scomponendo e integrando ogni identità di classe in una moltitudine pulviscolare di utenti, che si sottraggono al controllo materiale e cedono un’ampia delega al controllo psico-immateriale –, così oggi il decentramento prodotto da ChatGPT e simili anima una dinamica in cui ogni nostra relazione viene assistita e guidata da un general intellect privatizzato, in cui l’apparente socialità dell’interfaccia, quello spazio in cui dialoghiamo con il chatbot, chiedendogli tutto quello che vogliamo, nasconde il ferreo dominio monopolista sui suoi serbatoi di alimentazione.
Come scriveva già André Gorz nel suo pamphlet La civiltà del tempo libero, citando Peter Glotz, “fare in modo che il tempo di cui ciascuno dispone per la propria ricerca di senso sia più importante del tempo di cui ha bisogno per il suo lavoro, le sue ricreazioni e il suo riposo. La sinistra non ha più obiettivi? Eccone uno”. La nuova partita si gioca attorno alla costruzione di senso. Una partita in cui si ripropone il dualismo fra i soggetti portanti del mercato – i proprietari delle intelligenze, da una parte, e dall’altra quelle forme di utenza sociale che si aggregano attorno alle pratiche territoriali o professionali: per esempio medici e giornalisti, o anche gli amministratori delle città e delle università. Il conflitto sul senso è fra chi può riprogrammare il vocabolario del sistema, non fra chi vuole solo riscattare la propria impotenza o insensibilità con una mancia.
La sfida del “New York Times” a OpenAI, per strappare i diritti di copyright sui contenuti usati per addestrare ChatGPT, propone un terreno di azione e di elaborazione. I liberals chiedono risarcimenti, offrendo piena libertà alla proprietà di programmare il software; la sinistra deve pretendere un cambio di regime nell’economia dei dati e degli algoritmi, rivendicando un welfare del sapere tecnologico, in cui siano ripristinati i beni comuni dell’elaborazione collettiva, che inizialmente permisero lo sviluppo delle comunità digitali. Attorno a questo nodo, si deve discutere sulla nuova forma partito e soprattutto sul ripensamento del vecchio, melenso e inattuale confine fra riformismo e rivoluzione. È ancora praticabile un riformismo che consenta l’esercizio della proprietà privata su beni così intimi quali i meccanismi di interferenza sul nostro cervello? Non siamo in una situazione in cui è il potere, non il reddito, l’obiettivo di una rivendicazione di massa? Il listino di borsa, con le sue nuove classifiche, non sta reclamando una sinistra che possa contendere a Microsoft la pianificazione e la ricerca dei linguaggi di automazione sociale, integrando in questa battaglia il lavoro vivo che ancora Apple utilizza per i suoi prodotti? Insomma, niente di più di quanto Calvino aveva sollecitato cinquant’anni fa. Ecco il tema per un anno non rassegnato: una sinistra che possa parlare e organizzare il popolo di Microsoft e quello di Apple, usando questa contesa a favore di tutti gli ultimi della terra. Dopo averla ingaggiata.