L’attenzione dei media riguardo alla sessione inaugurale della decima legislatura del parlamento europeo, questa settimana a Strasburgo, è concentrata sul voto per la rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, e sulla maggioranza assoluta (361 voti su 720 seggi) di cui avrà bisogno. Il voto, a scrutinio segreto, comincerà con la deposizione delle schede nell’urna a partire dalle ore 13 di giovedì 18 luglio; si prevede che i risultati finali non si sapranno prima delle 14.45. In precedenza, a partire dalle 9, ci sarà un dibattito in plenaria tra gli eurodeputati delle diverse forze politiche, dopo la presentazione, da parte di von der Leyen, delle sue linee programmatiche per i prossimi cinque anni.
Tuttavia, non sarà tanto il programma politico della nuova Commissione che determinerà nei prossimi cinque anni la produzione legislativa europea; saranno fondamentali i nuovi equilibri in plenaria, che le elezioni hanno modificato sensibilmente, con il nuovo ruolo e il peso politico inedito delle destre. Le proposte legislative della Commissione per nuovi regolamenti o direttive, o per la revisione di quelli già in vigore (come il regolamento che mette al bando il motore a combustione per le nuove auto dal 2035), potranno subire nel parlamento e in Consiglio Ue, dove pure stanno aumentando i governi di destra, modifiche molto profonde prima dell’approvazione finale.
Nel parlamento europeo i gruppi politici a destra del Ppe sono ormai tre. Due nuovi gruppi si sono costituiti la settimana scorsa: i Patrioti per l’Europa (84 eurodeputati) e il gruppo Europa delle nazioni sovrane (Esn, 25 eurodeputati). Le loro posizioni sono talmente estreme che fanno apparire come moderato il terzo gruppo della destra, quello ormai “storico” dei Conservatori e riformisti (Ecr, 78 seggi) di Giorgia Meloni e del Pis polacco. Per i Patrioti si è trattato sostanzialmente di un rebranding del vecchio gruppo di estrema destra Identità e democrazia (Id), con in più l’aggiunta del partito Fidesz del premier ungherese Viktor Orbán (che era tra i “non iscritti”, dopo essere stato costretto a uscire dal Ppe) e del partito spagnolo neofranchista Vox, che veniva dall’Ecr. Nei Patrioti sono entrati quasi tutti i partiti nazionali del vecchio Id (in particolare la Lega, 8 seggi, e il Rassemblement national di Marine Le Pen, 30 seggi), con la notevole eccezione dell’Alternative für Deutschland. L’Afd (14 eurodeputati), espulsa dall’Id poco prima delle elezioni, ha fondato l’altro gruppo della destra più estrema, l’Esn. Le altre due formazioni più importanti dell’Esn, con tre eurodeputati ciascuna, sono quella del partito polacco Konfederacja (Confederazione) e di quello bulgaro Wasraschdane (Rinascita).
Uno degli obiettivi principali della formazione dei Patrioti (insieme all’integrazione di Fidesz, che così esce dal limbo dei “non iscritti” in cui era rimasto negli ultimi anni, senza margine di azione politica) è quello di cercare di evitare che gli venga applicato lo stesso “cordone sanitario” che aveva colpito Identità e democrazia nella scorsa legislatura. Questo non succederà formalmente, perché tutti i gruppi europeisti, compreso il Ppe (come ha confermato il suo capogruppo, Manfred Weber), non hanno cambiato posizione su questo punto. Il “cordone sanitario”, che colpirà i Patrioti e l’Esn, comporta innanzitutto l’esclusione dalla ripartizione dei ruoli istituzionali (il presidente e i vicepresidenti dell’Assemblea, i questori, i presidenti e vicepresidenti delle commissioni parlamentari); in secondo luogo, per come è stato applicato finora, l’esclusione dai negoziati tra i rappresentanti delle forze politiche durante i lavori parlamentari, per trovare compromessi e concordare emendamenti sugli atti legislativi. Ma si può prevedere che l’Ecr, non colpito dal “cordone sanitario”, possa fare da mediatore, da ponte almeno, con i Patrioti (se non anche con l’Esn), riducendo la loro marginalizzazione con un coinvolgimento mirato. Il “cordone sanitario” verrebbe aggirato in determinati negoziati, riguardo a certe decisioni controverse (soprattutto sulle tematiche riguardanti il Green Deal e l’immigrazione) in cui più è ampia la divergenza tra il Ppe e gli altri partiti europeisti: i liberali di Renew, i socialisti e democratici, i verdi. In altre parole, quando si tratterà di decidere su questi punti, se il Ppe chiederà sostegno all’Ecr, non avrà bisogno di “sporcarsi le mani” con un negoziato diretto con i Patrioti; lo faranno i conservatori al suo posto.
Il Ppe potrà così giocare su due tavoli per far passare le proprie priorità, creando le maggioranze (semplici, non assolute) necessarie di volta in volta, quando saranno sottoposte al voto del parlamento le proposte di direttive e di regolamenti europei: in certi casi, verrà confermata la “maggioranza Ursula” (magari anche con i verdi); in altri, quando sembrerà loro opportuno, i popolari volgeranno le spalle a socialisti e liberali votando con l’Ecr, e, tramite la loro intermediazione, con i Patrioti, e forse persino con la destra più estrema dell’Esn. Nei prossimi cinque anni, insomma, il Ppe mira a riconquistare una centralità assoluta nell’attività legislativa (almeno questa è la strategia del suo presidente, Weber) e a non farsi mettere nell’angolo in seno alla “maggioranza Ursula”, com’è successo spesso, nei primi quattro anni della scorsa legislatura, durante la marcia sostenuta per l’approvazione delle misure previste dal Green Deal.
La maggioranza assoluta per von der Leyen, comunque, non è ancora sicura, nonostante i tre gruppi politici (Ppe, 188 seggi, socialisti e democratici, 136, liberali di Renew, 77) che l’avevano sostenuta nel 2019, per il suo primo mandato, e che intendono sostenerla anche questa volta, abbiano insieme un totale di 401 seggi. Ma questi 40 voti in più della soglia richiesta sono solo teorici. I voti di diversi partiti nazionali di questi tre gruppi potrebbero mancare all’appello durante lo scrutinio segreto: tra i liberali, i più critici sono i tedeschi (8 seggi), contrari alla messa al bando dei motori a combustione nel 2035, e gli irlandesi (6 seggi), che rimproverano a von der Leyen il suo appoggio incondizionato a Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Poco convinti sembrano anche gli slovacchi (6 seggi) e i portoghesi (2 seggi). Persino nelle file del Ppe, potrebbero mancare i voti francesi di Les Républicains (6 seggi), dell’Ovp austriaco (5 seggi) e del Sds sloveno (4 seggi). Non sono da escludere, inoltre, le defezioni singole di una minoranza dei socialisti e democratici. Si calcola che saranno circa il 15% i “franchi tiratori” nell’insieme dei tre gruppi.
Von der Leyen lo sa bene, e aveva due possibilità per assicurarsi una rete di sicurezza: chiedere voti alla frazione considerata più moderata e meno anti-europeista del gruppo Ecr, ovvero gli italiani di Fratelli d’Italia (24 seggi), i cechi dell’Ods del premier Petr Fiala (3 seggi) e i belgi fiamminghi del N-Va (3 seggi), senza neanche tentare di coinvolgere i polacchi del Pis (20 seggi); oppure rivolgersi ai verdi (53 seggi), che fin dall’inizio si sono dimostrati disposti ad appoggiarla, a condizione che vada avanti con l’attuazione del Green Deal senza rimettere in discussione la legislazione già approvata. Com’è apparso subito chiaro, le due opzioni erano entrambe rischiose e tendevano a escludersi a vicenda: un accordo con l’Ecr avrebbe rimesso in dubbio il sostegno dei liberali e dei socialisti, mentre un accordo con i verdi avrebbe alienato alla presidente della Commissione l’appoggio della parte più a destra del suo stesso gruppo, il Ppe, a partire dalla sua componente italiana (9 seggi).
Alla fine, la scelta di von der Leyen, sebbene non esplicitata ancora ufficialmente, è stata la seguente: meglio rischiare di perdere qualche voto del Ppe, ma assicurarsi gli oltre 50 voti dei verdi (che hanno tradizionalmente la più compatta disciplina di gruppo di tutto il parlamento), anziché scommettere su un appoggio, possibile ma non sicuro, di una ventina di conservatori o poco più, che non sarebbero bastati a compensare le perdite dovute alla reazione inevitabile di socialisti e liberali. La presidente della Commissione vedrà ancora, il 16 luglio, il gruppo Ecr, ma difficilmente l’incontro sarà risolutivo. Alla fine, gli eurodeputati di Fratelli d’Italia voteranno come deciderà Giorgia Meloni, tenendo conto dell’interesse che ha, come premier italiana, a mantenere buoni rapporti con von der Leyen, se verrà confermata.