Il liberalismo è una cosa seria. Con la Rivoluzione americana del 1776, e in una certa misura con quella francese del 1789, è stato il pensiero fondativo della democrazia occidentale, sia pure tra luci e ombre. I diritti individuali, la separazione dei poteri, la laicità dello Stato, lo Stato di diritto e l’eguaglianza di ciascuno di fronte alla legge, il suffragio universale, l’economia di mercato – sono i punti fondamentali sui quali si regge. In Italia il liberalismo – che fu protagonista della vita politica del Paese in tutta la fase post-unitaria – si trovò però relativamente ai margini durante i primi decenni di vita della Repubblica, nonostante ci fossero tutte le condizioni per un suo riemergere. Ci fu a un certo punto chi si illuse, sbagliando clamorosamente, che Forza Italia potesse colmare questo vuoto ideologico e politico. La prospettiva ritornò fuori con la nascita del Partito democratico, nel 2007, quando Walter Veltroni volle trasformare la cultura comunista e una parte di quella cattolica in assi portanti di un partito liberaldemocratico ispirato a quello americano, azzardando anche un’improbabile somiglianza con il Partito d’azione degli anni della Resistenza, che si era provato soprattutto a coniugare liberalismo e socialismo.
L’atto fondativo del Nazareno si basò sul “Manifesto dei valori” del 16 febbraio 2008, che pose le basi per la nascita di un partito interclassista poco attento al mondo del lavoro (vedi il successivo Jobs Act, approvato durante il governo Renzi). Il Pd doveva rappresentare sia i lavoratori sia gli imprenditori, il che significava, considerati i rapporti di forza nella società, fare gli interessi dei secondi. Veltroni – ma in realtà l’intero ex gruppo dirigente comunista – cancellò ogni traccia del proprio passato. Il risultato fu un partito ispirato alla famosa “terza via” blairiana (la cui filosofia aveva affascinato lo stesso D’Alema), con un impianto liberale e liberista, sia pure più morbido sul piano economico, ma che non poteva funzionare perché – come denuncia da tempo il segretario della Cgil, Maurizio Landini – non era un interlocutore per coloro che lavorano e vivono in condizioni sempre più drammatiche e precarie, con la conseguenza di infliggere un grave vulnus alla democrazia italiana, e avendo come effetto l’inevitabile crescita delle destre.
Con questi presupposti, il Pd – in particolare dopo la parentesi della segreteria di Bersani – si trasformò in una macchina politica che, senza vincere veramente le elezioni, si affidava a governi tecnici e a trasformismi parlamentari per stare comunque nella stanza dei bottoni, vivacchiando con percentuali intorno al 19% e crollando, all’indomani del voto del settembre 2022, secondo i sondaggi, a un drammatico 14%. Nasceva così, il 21 gennaio 2023, il “Manifesto per il nuovo Pd”, suscitando preoccupazioni e resistenze sia nel partito sia tra opinionisti di vario genere, soprattutto in quelli di una galassia liberale mai concretizzatasi, però, in qualcosa di serio.
“La sinistra italiana – sosteneva Nicola Rossi, economista, già esponente di spicco prima dei Ds e poi del Pd, in un articolo pubblicato lo scorso anno sul “Foglio” –, di cui il Pd è parte integrante, con il liberalismo classico non ha proprio nulla a che fare. L’idea di pochi, in quegli anni Novanta, di fare del Pd il veicolo della ‘rivoluzione liberale’ era – parlo soprattutto per me – ingenua, nel migliore dei casi. Più correttamente, errata. E sono lieto di averlo compreso, anche se in ritardo, e di averne tratto le conseguenze”.
Il nuovo programma faceva piazza pulita, almeno a parole, della flessibilità del lavoro, ridando allo Stato quel ruolo di regolatore del mercato che dovrebbe essere un elemento portante per qualsiasi partito progressista, ma che era scomparso o quasi dalle parole d’ordine del Pd. Si faceva riferimento all’art. 3 della Costituzione, e in un passo si legge che “disuguaglianze, povertà, discriminazioni e marginalità sociali sono il più grande impedimento a ogni forma di coinvolgimento collettivo e di emancipazione”. Il fatto che un partito progressista, sia pure di sinistra liberale, non si sentisse in obbligo di coltivare questi obiettivi, voleva dire che la creatura di Veltroni aveva sposato un liberalismo destinato a spostarsi a destra, rappresentando magari i cittadini della Ztl, ma lasciando nelle mani delle destre quelle che un tempo erano le classi popolari.
Le primarie del 26 febbraio 2023 – in cui si sarebbero dovuti esprimere, in ogni caso, gli elementi fondativi del nuovo partito – trovarono nei due sfidanti approcci politici molto diversi. Da un lato, il liberale “riformista” ex renziano, Stefano Bonaccini, non esattamente entusiasta dell’avvio della nuova fase, e, dall’altro, la giovane ex europarlamentare, protagonista a suo tempo dell’iniziativa “Occupy Pd”, Elly Schelin, che, pur sconfitta nelle primarie di partito, risultò vincitrice in quelle aperte. Molto attenta al tema dei diritti civili – tanto da provocare qualche imbarazzo in quel pezzo di mondo cattolico presente nel partito, che, più che liberale, potremmo definire conservatore –, Schlein, con sempre maggiore determinazione, ha fatto sue anche le battaglie sociali, come non si vedeva da tempo. Dunque: la raccolta delle firme, promossa dalla Cgil, per indire i referendum finalizzati a cancellare il Jobs Act, la battaglia per il salario minimo, la denuncia dell’abbandono in cui versa la sanità pubblica.
È stato sufficiente questo “dire qualcosa di sinistra” per determinare una fuga dei liberali, quasi tutti renziani, rimasti nel partito solo per disturbare il manovratore. Di questi fuoriusciti, passati nelle file di Azione di Calenda e Italia viva di Renzi, si è persa subito la memoria, in quanto sconosciuti ai più. La sconfitta, nelle scorse europee, dei due patetici soggetti centristi dimostra il disinteresse della maggior parte dei cittadini nei riguardi di quella cultura politica che, a prescindere da come la si pensi, ha fatto la storia dell’Occidente, ma che in Italia, come accennavamo all’inizio, è identificabile più che altro nelle figure di Cavour e di Giolitti.
Ora qualcuno spera che personaggi come Pina Picierno, Giorgio Gori, Irene Tinagli – famosa per il suo “non saprei che dire a un operaio se lo incontrassi” –, fino ai più presentabili Antonio Decaro e Stefano Bonaccini, possano ridare un improbabile fiato ai liberali del Nazareno. Ma la verità è un’altra: la vera liberale – o per meglio dire liberal, come negli Stati Uniti sono definiti i democratici più progressisti – è lo spauracchio di quei “liberali” che se sentono la parola “sinistra” fuggono a gambe levate. Elly Schlein è giovane, laica, non ha nulla a che vedere con la storia novecentesca di questo Paese, nulla con la Dc o con il Psi, e neppure con il Pci (il cui segretario Berlinguer è stato però ricordato nella tessera 2024, in occasione dei quarant’anni dalla morte), fu impegnata come volontaria (2008) nella campagna elettorale dell’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Insomma, una liberale nel Pd l’avrebbero trovata – ma se si fa fatica ad accettare che il lavoro e i diritti sociali vanno messi al centro di un programma politico di un partito di sinistra, meglio sarebbe darsi all’ippica.