La valanga sta ormai prendendo forza, iniziata non dal proverbiale sassolino ma da un macigno di enormi proporzioni, in bilico sulla cima della montagna, che già da mesi preoccupava gli osservatori più attenti. Allo stato delle cose, non è detto che precipiti, potrebbe anche fermarsi contro qualche ostacolo; ma le probabilità che finisca col travolgere tutto e tutti sono alte. Intanto, è cominciata la fuga dal fondovalle, qualcuno ha già fatto i bagagli, molti ci stanno pensando e la ricerca di un luogo più sicuro si è fatta spasmodica. Fuor di metafora: il 27 giugno scorso, nel primo dibattito tra i candidati alla presidenza, Joe Biden e Donald Trump, tenutosi ad Atlanta, in Georgia, il primo sembrava stanco e vacillante, forse era anche raffreddato. È apparso disorientato, incapace di controbattere alle falsità inanellate dal suo antagonista. Gli osservatori più imparziali hanno definito la sua prestazione un disastro, una débâcle che non ha risolto, anzi aggravato, le preoccupazioni venutesi accumulando nel corso degli ultimi mesi circa lo stato di salute dell’anziano presidente, con tutti i segni, fin troppo evidenti, di un deterioramento fisico e cerebrale.
Immediatamente il “New York Times”, da sempre un sostenitore dei democratici, ha pubblicato in prima pagina un appello del suo editorial board (l’insieme dei suoi opinionisti), in cui ha chiesto a Biden di rinunciare alla candidatura concludendo con parole ferme e dure, al limite del dileggio: “Se davvero pensi che l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump è una grave minaccia per la democrazia del Paese e va evitata a ogni costo, fatti da parte e lascia che sia qualcun altro a contendergli la presidenza”.
Inizialmente i notabili del partito, i capi dei democratici nel Congresso, Hakeem Jeffreys e Chuck Schumer, i governatori negli Stati, i possibili candidati alternativi, sono rimasti in silenzio o hanno espresso solidarietà nei confronti del loro presidente. Forse questi ultimi – Gretchen Whitmer del Michigan, Gavin Newson della California e la stessa vicepresidente Kamala Harris (ma lei almeno aveva la scusante di dover difendere d’ufficio il suo presidente) e altri – che guardano già alle prossime elezioni, quelle del 2028, non volevano bruciarsi con candidature intempestive, che sarebbero anche apparse di cattivo gusto. Ma tra tutti i democratici le preoccupazioni rimanevano, e sottotraccia si espandevano con i primi segnali di importanti finanziatori che incominciavano a chiedersi se i soldi investiti su Biden erano, a questo punto, ben spesi.
Si attendeva il secondo appello, un’intervista a tu per tu con un giornalista vicino ai democratici, George Stephanopulos, una settimana dopo. Com’è andata? Meglio del dibattito con Trump, ma le risposte di Biden, a tratti impermalosite, a tratti girovaganti, non hanno fugato i dubbi sul suo stato di salute. La slavina acquistava velocità. Alcuni esponenti politici democratici uscivano allo scoperto, si parlava di formare un comitato per andare alla Casa Bianca a cercare di convincere il presidente a ritirarsi. Poi si sono fatti avanti gli opinion leader, gli attori di Hollywood (George Clooney), i cantanti famosi (Taylor Swift), da ultimo il sindacato dei metalmeccanici (anche loro molto vicini ai democratici) per bocca del suo segretario generale, Shawn Fain. Tutti costoro hanno cominciato a chiedere a Biden, sempre “con rispetto”, di farsi da parte.
Infine, l’ultima tappa in ordine di tempo di questa via crucis: la conferenza stampa a Washington, al termine del summit della Nato in cui, per la prima volta da molti mesi, Biden si è sottoposto a un’ora di domande non concordate dei giornalisti. Com’è andata? Bene, rispetto alle aspettative peggiori. A parte alcune gaffe (ha confuso Trump con la vicepresidente Harris, così come il giorno prima, presentando Zelensky, l’aveva chiamato “Putin”), Biden ha mostrato di tenere la situazione moderatamente sotto controllo. Nelle sue risposte, si è lasciato andare a lunghe tirate sull’economia e sulla politica estera, che probabilmente conosce a memoria per averle recitate in centinaia di comizi. Alle domande più pungenti circa la sua capacità di esercitare i doveri della presidenza, ha risposto in sostanza: “L’ho fatto negli anni scorsi – e l’ho fatto molto bene – perché non dovrei continuare a poterlo fare anche in futuro?” (Naturalmente il problema è tutto lì, in quel “perché”). La conferenza, invece, è andata piuttosto male per chi sperava che Biden potesse dissipare i dubbi sulla sua salute fisica e mentale, rassicurando gli elettori sulla sua capacità di battere Trump.
Come ha reagito l’anziano presidente al montare di critiche, preoccupazioni, riserve, allarmi? Gli psicologi usano l’espressione “reazione di negazione”, una patologia in cui il soggetto, messo di fronte a una realtà sgradevole, non solo rifiuta di accettarla ma ne nega l’esistenza costruendosi un mondo fittizio, per lui più rassicurante, in cui vivere. “Sono anziano, cammino più lentamente, non parlo come una volta, ma sono sempre lo stesso” – è il massimo di autoconsapevolezza di cui Biden è stato capace via via che il coro di coloro che gli chiedevano di farsi da parte aumentava. Un coro che non ha nulla a che fare con la logica della politica (che è fatta, o dovrebbe essere fatta, di lucide valutazioni di interessi e rapporti di forza), quanto piuttosto con l’indulgenza che si può avere per il vecchio nonno quando lo si va a trovare in una casa di riposo. “Biden ti vogliamo bene, ma adesso è tempo di lasciare” – sta scritto in questi giorni sui cartelli di molti manifestanti; ed è anche la premessa d’obbligo di molti articoli sulla stampa amica che gli chiedono la stessa cosa: “Ti vogliamo bene, sei stato un eccellente presidente, anzi il migliore di sempre, ma adesso…”.
Biden però non è il solo colpevole di questa incredibile, per certi versi grottesca, situazione; anzi, se di patologia senile si tratta, lui è il meno colpevole. I principali responsabili sono tre, o meglio tre gruppi di persone. Il primo gruppo è costituito dalla cerchia dei suoi più stretti collaboratori e ministri alla Casa Bianca, il ministro degli esteri Blinken, il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan, l’ex capo di gabinetto Ron Klein, che di fatto hanno governato gli Stati Uniti, in questi ultimi anni di decadenza fisica e psichica del loro presidente, talora riprendendolo e correggendolo quando faceva dichiarazioni “fuori linea”. Tutti costoro, e l’intero numerosissimo staff della campagna elettorale, sperano di continuare a esercitare la loro influenza, o accrescerla, in una futura amministrazione Biden. Per questo lo proteggono dalle domande indiscrete dei giornalisti e dalle situazioni in cui, in mancanza di un discorso scritto, potrebbero venire fuori le sue lacune mentali.
Il secondo gruppo di responsabili, forse il più colpevole perché non animato da diretti interessi materiali, è la famiglia. Ci si sarebbe aspettati che la moglie Jill, universalmente considerata una brava persona, dopo la penosa performance del 27 giugno, fosse stata la prima ad ammettere la triste realtà delle condizioni del marito, incoraggiandolo a ritirarsi. E invece ha fatto l’esatto contrario. Lo ha preso per mano e rassicurato, come una madre apprensiva con un figlio un po’ tardo di comprendonio: “Sei stato proprio bravo – gli ha detto dopo il dibattito –, ti sei ricordato tutti i nomi e hai risposto a tutte le domande. Sono fiera di te”. Poi, una settimana dopo, nel ritiro presidenziale di Camp David, tutti – figlio, figlie, nipoti, fratello e naturalmente moglie –si sono riuniti intorno all’anziano capofamiglia e – non si sa se per amore o opportunismo – lo hanno spinto a continuare, ben sapendo a quale dura prova, fisica e psicologica, lo avrebbero sottoposto nei prossimi quattro mesi di campagna elettorale.
Il terzo colpevole, ma qui almeno il calcolo è puramente politico, cioè di interesse, è il partito. Abbiamo detto di coloro che hanno taciuto (fin qui) per non compromettere eventuali candidature future. Ma l’insieme dei parlamentari e dei senatori? Qualcuno incomincia adesso a farsi avanti, ma per lo più sono stati zitti nonostante il fatto che le loro stesse chance di rielezione siano danneggiate dalla bassa popolarità di Biden. Ugualmente, si rimane sorpresi dal fatto che Barack Obama, che tuttora gode di grande popolarità nel partito, almeno pubblicamente continui a sostenere la candidatura di Biden, del quale, a detta dei più, non mostrava di avere grande stima quando era il suo vicepresidente (diciamo che due persone più diverse, per stile politico e intellettuale, sarebbe difficile immaginarle). Solo nei giorni scorsi un’altra leader influente del partito, la ex speaker Nancy Pelosi, si è spinta a dire che Biden “può decidere di continuare o meno, ma deve farlo in fretta”.
Se Biden dovesse decidersi – ed è un grande “se” – a lasciare la corsa per la Casa Bianca (sulla piattaforma di scommesse Policy Betting il ritiro viene dato al 62%), si aprono almeno due scenari intorno ai quali analisti e commentatori si stanno accapigliando tra favorevoli e contrari. Il primo è lo scenario Kamala Harris. L’attuale vicepresidente non è mai stata molto amata dal pubblico, che la favoriva con percentuali ancora inferiori a quelle del presidente. Se Biden rinunciasse, e i notabili del partito scegliessero lei, Biden potrebbe “liberare” i propri delegati ottenuti nel corso delle primarie (che sono impegnati a votare per lui nella convention di agosto) invitandoli a votare, piuttosto, per l’attuale vicepresidente. Questa sarebbe la soluzione meno dolorosa per lui e per il partito la meno imbarazzante: una scelta di continuità, cui lo stesso Biden ha fatto un velato riferimento nella conferenza stampa. Intanto, da quando è stata ventilata la sua candidatura, Harris è cresciuta nei sondaggi, e adesso è data vincente su Trump di un paio di punti.
Lo svantaggio di questa soluzione è anche il risultato della sua forza: non sarebbe probabilmente sufficiente a motivare l’elettorato democratico, al momento frastornato e deluso dal poco edificante spettacolo. Il secondo scenario, invece, è quello di una rottura, ovvero affidare la scelta del candidato o candidata, in modo aperto e competitivo, alla convention, nella quale i delegati di Biden ora liberi, insieme con i delegati di diritto del partito, esaminerebbero le possibili opzioni scegliendo quella migliore, presidente e vicepresidente. Com’è stato fatto notare, non mancano nel partito personalità di spicco, dei più diversi orientamenti politici – centristi, come Roy Cooper della Carolina del Nord, o di sinistra come Gretchen Whitmer del Michigan, o ancora il californiano Gavin Newson –, che potrebbero unificare il partito e portarlo alla vittoria.
Il problema è che facendo scegliere il candidato alla convenzione si arriverebbe a ridosso delle elezioni, e forse non ci sarebbe tempo per cambiare cavallo in corsa e reimpostare la campagna elettorale. Una variante di questo scenario, quindi, sarebbe quella di lanciare da subito (cioè dal momento in cui Biden si dimetterà) miniprimarie in tutti gli Stati per la selezione del o dei candidati da portare alla convenzione. Ci sarebbe così anche il vantaggio di una grande e continua visibilità mediatica (i media non parlerebbero d’altro che dei candidati democratici in lizza tra loro) che lascerebbe Trump, letteralmente, senza parola.
Qualche mese fa, dopo le primarie del Super Tuesday, con risultati scontati sia per Biden sia per Trump, da queste pagine avevamo annunciato che sarebbero state le primarie più noiose di sempre senza veri candidati a contenderle (vedi qui). Ci sbagliavamo. Il minimo che si può dire dell’attuale situazione, per quanto disastrosa per Biden e pericolosa per la democrazia americana, è che le prossime elezioni presidenziali si annunciano tra le più interessanti da molti decenni a questa parte.
Post-scriptum – Il 14 luglio, uno squilibrato ha sparato a Donald Trump durante un comizio in Pennsylvania: oltre all’attentatore, un uomo è morto e altri due sono rimasti gravemente feriti. Trump se l’è cavata con una ferita di striscio. Si tratta soltanto della 262esima strage dall’inizio dell’anno, e – a parte la visibilità del bersaglio principale – al pari delle precedenti non avrebbe meritato l’attenzione dei media. È presto per fare considerazioni politiche sulle conseguenze del grave gesto; ma una è particolarmente preoccupante per Biden e i democratici: quando, il 30 marzo del 1981, Ronald Reagan venne ferito gravemente da un attentatore, nei giorni successivi la sua popolarità crebbe di circa 7 punti.