Luca Zaia difensore dell’unità nazionale e della coesione sociale. I nostri contemporanei potranno legittimamente raccontare ai nipoti di aver vissuto, come si dice, tempi interessanti, di essere stati testimoni di eventi fuori dal comune. Il referendum contro l’autonomia regionale differenziata “sarà una guerra tra guelfi e ghibellini, o meglio di italiani contro italiani. Ci rendiamo conto del pericolo di spaccare il Paese?”, è l’allarme lanciato sul “Corriere della sera” dal presidente leghista della Regione Veneto. Zaia, che è sceso in campo per primo chiedendo formalmente di avviare le procedure per il passaggio di poteri e competenze dallo Stato alla sua Regione, esibisce una lettura molto particolare dell’istituto referendario. A suo giudizio, infatti, non si tratterebbe di uno strumento democratico ma di una minaccia.
L’esponente di punta del post-secessionismo nordista ha comunque provato a rassicurare innanzitutto se stesso, soprattutto sull’iter: “Prima vediamo se il quesito sarà ammesso dalla Cassazione”. Va infatti tenuto presente che, pur non essendo una legge di spesa – il governo per adesso non ha stanziato risorse per sostenere le nuove competenze regionali –, il disegno di legge Calderoli era curiosamente un collegato alla legge di bilancio. E l’articolo 75 della Costituzione precisa che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio”. Zaia si è espresso anche sul quorum, non a torto: serve infatti il 50% degli aventi diritto più un elettore, e nel 2022, in occasione dei referendum di Matteo Salvini e dei radicali sulla giustizia, l’affluenza superò a malapena il 20%. L’ultima volta che è stato superato il quorum referendario risale al 2011, al clamoroso successo dei quesiti contro il nucleare, contro la privatizzazione dell’acqua e contro il legittimo impedimento, una delle contestatissime norme ad personam promosse da Silvio Berlusconi in materia di giustizia.
“Terzogiornale” ha più volte in questi anni cercato di approfondire il tema degli effetti concreti della “riforma” e dei rischi di ulteriore allargamento delle disuguaglianze: per esempio qui, qui e qui . In questa fase, però, sull’autonomia regionale come sul cosiddetto premierato, insieme allo spintone agli equilibri costituzionali in materia di giustizia (la quota berlusconiana delle riforme del governo Meloni), si giocano i legami politici nella maggioranza parlamentare, e in definitiva i destini della coalizione di destra-centro. Non a caso la scelta dei leader del centrosinistra di depositare il quesito abrogativo in Cassazione, iniziativa cui farà seguito quella di cinque Regioni governate dalle opposizioni, è stata etichettata da destra come strumentale al rafforzamento del “campo largo”: sul lungo periodo non può essere dato per certo, nemmeno nei gruppi dirigenti dei partiti di governo, il sostegno compatto alla riforma-simbolo della Lega.
Soprattutto nelle regioni meridionali non mancano i mal di pancia per l’accelerazione sull’autonomia, imposta dalla Lega e di fatto anche da Meloni in virtù dell’intesa sul varo parallelo della riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Finora il patto tiene (vedi qui uno sguardo d’insieme) e, dati i risultati delle elezioni europee, non c’è motivo per sospettare che il disciplinatissimo partito di Meloni possa evidenziare a breve qualche crepa in materia. Ma Forza Italia, pressata dal presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha dovuto mettere su un Osservatorio sull’autonomia differenziata, e il segretario azzurro Antonio Tajani è stato costretto a precisare che non si tratterà della classica “commissione apposita” incaricata di pestare l’acqua nel mortaio. “Non sarà – ha spiegato – un gruppo di studio ma una struttura politica che dovrà fare valutazioni politiche ed eventuali iniziative qualora ci fossero distorsioni nell’applicazione della riforma”. Il gancio scelto dal partito berlusconiano per esternare le proprie preoccupazioni è quello dei mitici Lep, livelli essenziali delle prestazioni: per Occhiuto, Forza Italia dovrebbe bloccare ogni intesa Stato-Regione sull’autonomia differenziata “se prima non saranno interamente finanziati i Lep e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud”. Vaste programme, per citare l’immortale commento del generale De Gaulle.
Attenzione: i Lep, oggetto anche di qualche attenzione correttiva da parte di Fratelli d’Italia nel corso dell’iter parlamentare del disegno di legge Calderoli, non sono altro che una sorta di cintura di sicurezza aggiunta nel testo dell’articolo 117 della Costituzione, all’epoca della mai abbastanza deprecata riforma del Titolo V. Spetta allo Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Livelli essenziali, ossia minimi. “L’opposto dell’uguaglianza”, come ha sottolineato il costituzionalista Carlo Iannello in un recente intervento sul “manifesto”, perché gli apprendisti stregoni del centrosinistra, nel 2001, hanno introdotto all’articolo 119 della Carta il criterio della “compartecipazione”. Dato che le Regioni “dispongono di compartecipazioni al gettito e di tributi erariali riferibili al loro territorio”, quelle più ricche, che a destra in genere amano definirsi “virtuose”, potranno ben impiegare risorse superiori ai minimi (ammesso che questi Lep vengano mai realmente fissati dallo Stato su livelli decenti per tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal territorio di appartenenza e finanziati adeguatamente).
Esiste poi un fondo di perequazione per limitare le disuguaglianze eccessive, ma di fatto la norma ha creato, questa sì, una spaccatura nel Paese, quella che oggi Zaia imputa al referendum sull’autonomia. La tensione sulla quantità di risorse da lasciare sul territorio come “compartecipazione” e quella da attribuire al fondo di perequazione potrebbe trascinarsi all’infinito, oppure essere foriera di ulteriori lacerazioni nel tessuto della coesione sociale. Difficile immaginare, con questo robusto retroterra costituzionale che non a caso viene sempre citato dai big leghisti come legittimazione per la legge Calderoli, che il fragile freno a mano rappresentato dall’Osservatorio promesso da Forza Italia possa bastare da solo a fermare il treno dell’autonomia.
Si torna quindi al tema del referendum come unico strumento per provare a tagliare la strada alla cosiddetta “secessione dei ricchi”. Sui quesiti referendari in realtà non mancano dubbi pesanti, a metà strada fra il tecnicismo e la politica: il piano B, ovvero il quesito di riserva che le Regioni dovrebbero depositare insieme al testo totalmente abrogativo, si concentra proprio sulla necessità della determinazione dei Lep, ma, dicono i critici (Massimo Villone e Gianfranco Viesti fra i nomi più noti), accetta la legge così com’è, di fatto sancisce il superamento del servizio sanitario nazionale, e affida risorse e competenze enormi a dei piccoli premier regionali. Se fermiamo una riforma le fermiamo tutte, è il mantra degli ottimisti, in testa la segretaria del Pd, Elly Schlein; alla quale spetterà innanzitutto il compito di mobilitare tutto il suo partito, anche quello del Nord, nella raccolta delle firme, mettendo in discussione la forzatura leghista proprio nelle aree del Paese in cui il patto Salvini-Meloni-Tajani rimane egemone fra gli elettori. Altrimenti sarà chiaro che l’obiettivo dell’iniziativa non è quello della sfida quasi impossibile dell’abrogazione, ma più modestamente quello, pur legittimo, del consolidamento dei rapporti con i 5 Stelle e l’Alleanza verdi–sinistra, in vista di una possibile crisi, nei prossimi due o tre anni, della luna di miele fra le destre e gli elettori italiani.
Ma per chi ha idee non proprio coincidenti con quelle di Zaia a proposito dell’unità nazionale e della tenuta della questione sociale, potrebbe essere too little, too late, come recita un classico modo di dire inglese: “troppo poco e troppo tardi”. La ferita risale al 2001, alla riforma del Titolo V e prima o poi da lì si dovrà ripartire, sempre ammesso che nel centrosinistra si trovi mai il coraggio non di ammettere l’errore, come però ha iniziato a fare qualcuno, ma di provare a porvi rimedio cancellando l’impalcatura alla quale si appoggia la legge Calderoli.