Le desistenze in Francia hanno funzionato, e tiriamo un sospiro di sollievo. L’elettorato si è mobilitato – grazie alla spinta venuta dai partiti di sinistra, che sono stati pienamente all’altezza della situazione – e ha scelto di opporre uno sbarramento all’avanzata dell’estrema destra. Per Marine Le Pen e i suoi, che pure ottengono un aumento dei deputati rispetto alle elezioni del 2022, è una netta sconfitta: puntavano alla maggioranza assoluta e davano per scontata, se non altro, una maggioranza relativa; si ritrovano invece addirittura in terza posizione nell’Assemblea nazionale. La sorpresa, rispetto alle previsioni della vigilia, è data anche dal campo macroniano, giovatosi della indicazione del “fronte repubblicano” (che tuttavia da parte loro non è stata univoca nell’insieme dei collegi elettorali); allo stesso modo, del resto, il presidente della Repubblica deve le sue due elezioni, nei ballottaggi con Le Pen del 2017 e 2022, anche agli elettori di sinistra.
Si imporrebbe adesso una svolta progressista. Ma il blocco centrale sogna il tipico “taglio delle ali”: esclusa l’estrema destra, si tratterebbe ora di escludere anche la sinistra radicale. È una prospettiva a cui abbiamo fatto riferimento nei nostri articoli (vedi qui), peraltro sbagliati sotto il profilo delle previsioni. Scrivevamo che il popolo di sinistra non avrebbe potuto aspettarsi una “coabitazione” con il presidente della Repubblica, e si è realizzata piuttosto proprio questa possibilità: un governo di minoranza in parlamento, espressione della totalità del cartello delle sinistre dotato di una sua maggioranza relativa, è oggi un’ipotesi che non può essere scartata a priori. Bisogna ancora vedere i numeri precisi nella distribuzione dei seggi, ma sembra di poter dire che Mélenchon non ha fatto delle dichiarazioni avventate quando ha sostenuto, già nel primo intervento a caldo, che la gauche può ambire al governo e a realizzare i propri punti programmatici: tra cui, il ripristino dell’imposta sulla ricchezza, il ritorno delle pensioni a sessant’anni, l’aumento del salario minimo.
Ora l’insieme delle forze di sinistra (che comprendono melenchoniani, comunisti, socialisti ed ecologisti) deve presentarsi unito alla trattativa con Macron, indicando il nome di un premier che dovrebbe reggersi, poi, sulla ricerca dei voti in parlamento sui singoli provvedimenti. È semmai il campo macroniano, arrivato secondo alle elezioni, che dovrebbe essere scomposto in nome della cosiddetta governabilità, non il cartello delle sinistre arrivato primo. Tutto sta a vedere se queste sapranno tenere il punto.
Certo, il primo ministro non può essere Mélenchon. Non soltanto perché la sua France insoumise ha in questo parlamento un numero di deputati inferiore rispetto alla trascorsa legislatura, avendo il Partito socialista pressoché raddoppiato la propria delegazione, ma soprattutto perché, dovendo trattare con i centristi, il premier dev’essere un personaggio dal profilo più moderato, capace di rassembler. Un nome che è stato fatto, nei giorni scorsi, è quello di Laurent Berger, ex segretario della Cfdt (Confédération française démocratique du travail), un sindacato paragonabile alla nostra Uil, che ha saputo tenere una postura non compromissoria nel lungo braccio di ferro con Macron sulla questione delle pensioni. È una figura dal profilo socialdemocratico ed europeista, che potrebbe non dispiacere a quella parte dei macroniani con una vecchia militanza socialista.
Ciò che è sicuro, comunque, è che Macron, che pure alla fine non è uscito con le ossa rotte dalla scommessa ad alto rischio delle elezioni anticipate, adesso dovrà trattare. La sua strategia di annientamento del Partito socialista e di lenta erosione della destra moderata, attraverso la cooptazione del suo personale politico, è completamente fallita. Per salvare il Paese (che tra l’altro ha bisogno di essere raddrizzato dal punto di vista economico, dopo l’apertura di una procedura d’infrazione nei suoi confronti da parte dell’Unione europea per debito eccessivo), evitando una mezza insurrezione da parte della piazza, dovrà fare i conti con le forze di sinistra. Noi diciamo con tutta quanta la sinistra, volendo augurarci che quel cartello, che ha preso un po’ pomposamente il nome di “fronte popolare”, non voglia deludere il suo popolo e sappia dimostrarsi, ancora una volta, all’altezza della situazione.