Cicatrici, anelli, nei: sono i segni particolari che i familiari delle vittime hanno dovuto cercare per riconoscere i propri cari tra i corpi recuperati al largo della Calabria, dopo il naufragio del 17 giugno. Per evitare un impatto emotivo come quello del naufragio di Cutro dell’anno scorso, le salme sono state portate a terra di notte e distribuite in ospedali diversi. All’epoca, l’informazione aveva creato un’ondata di dolore, a cui era seguita una passerella governativa colma di promesse (raccontata qui). Per il naufragio di giugno, a Roccella Ionica, invece, il silenzio. Non si sono viste camere mortuarie e bare di legno in televisione, né cordoglio ufficiale o commenti da parte delle cariche di governo, nonostante, anche in questo caso, si sospetti che le autorità abbiano sottovalutato la necessità di soccorso.
Da un punto di vista mediatico, i giornalisti e le giornaliste hanno denunciato la difficoltà di accesso al porto e alle informazioni; addirittura, i numeri delle persone che hanno perso la vita, provenienti da Afghanistan, Iran, Iraq, Siria e Pakistan, sono diversi: secondo le autorità le vittime sarebbero trentaquattro, mentre la stampa ne riporta almeno quarantasei. L’assenza di dati concreti, di immagini e testimonianze approfondite crea un grande vuoto nella narrazione delle tragedie, lasciando che si riducano a numero nei faldoni e si rendano invisibili all’occhio distratto.
Al governo non interessa certo porre l’attenzione su naufragi e migranti dispersi. Anzi, le autorità italiane hanno segnalato con vanto una diminuzione degli sbarchi, nei primi tre mesi dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2023. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha dichiarato, in un discorso a Taormina, che il numero delle imbarcazioni giunte sulle coste italiane è del 60% in meno rispetto all’anno precedente. Anche la Croce rossa italiana ha confermato una diminuzione del 73% degli arrivi a Lampedusa, nel mese di giugno, rispetto al 2024. Ciononostante, le organizzazioni internazionali che si occupano di migrazioni, meno attente ai numeri e più alle vite umane, sottolineano l’importanza di fermare i naufragi non meno delle partenze, e denunciano le motivazioni dietro questo calo. Tra queste organizzazioni, quella di Medici senza frontiere ha espresso la sua frustrazione in un comunicato: “Dopo quasi un anno e mezzo dal naufragio di Cutro, le richieste di azioni serie e concrete continuano a risuonare a vuoto. Da allora, nessuna iniziativa specifica è stata portata avanti, se non politiche di deterrenza e accordi con Paesi terzi pensati per fermare le partenze che continuano a causare tragedie in mare”.
È proprio l’esternalizzazione del controllo sui confini, infatti, a causare l’attenuamento del fenomeno migratorio sulle coste italiane. Un esempio è fornito già dal ministro nello stesso discorso a Taormina, quando cita l’accordo Italia-Albania del novembre 2023, che prevede la costruzione di due centri per richiedenti asilo finanziati da Roma su territorio albanese. Al di là dell’Adriatico, saranno portate le persone intercettate durante attraversamenti non autorizzati dei confini dalla Guardia costiera italiana, dalla Polizia di frontiera e dalla Marina militare. “Intorno al centro verrà costruito un muro di quattro metri, così che non sia visibile cosa sta accadendo all’interno”, riporta il progetto MeltingPot Europa, citando una fonte all’interno del porto di Shëngjin, in Albania. È alta la preoccupazione, in queste condizioni, delle associazioni per i diritti dei migranti riguardo al rispetto delle procedure e circa l’accesso all’assistenza legale per i richiedenti asilo.
Tuttavia, quello con l’Albania è solo l’ultimo degli accordi opachi stipulati dal governo per dimezzare il numero di persone in arrivo nel Paese. Replicando un modello già adottato in Libia, nel dicembre 2023, il ministero dell’Interno italiano ha stanziato 4.800.000 euro per la rimessa in efficienza e il trasferimento di sei motovedette alla Garde nationale tunisina. Anche Ursula von der Leyen si era presentata all’incontro con il presidente Saïed, senza mai condannare le politiche xenofobe e razziste applicate dal presidente tunisino negli ultimi anni.
Le testimonianze dei migranti espulsi e lasciati in condizioni disumane, lungo il confine libico-tunisino, hanno sollevato l’indignazione della comunità internazionale, ma non hanno evitato gli accordi tra i Paesi. Attraverso foto, video e testimonianze, raccolte tra il luglio 2023 e il maggio 2024, “Irpi media”, una testata d’inchiesta italiana, ha verificato undici casi in cui le autorità tunisine hanno espulso gruppi di persone in zone remote o desertiche, nei pressi dei confini con la Libia e l’Algeria, due casi di espulsioni all’interno del Paese e un caso di consegna di migranti dalle forze tunisine alle milizie libiche. In particolare, è stata raccontata l’epopea di un migrante, François, che, partito da vicino Sfax per Lampedusa, è stato intercettato dalle navi della Garde nationale tunisina e maltrattato dagli agenti: “Ci hanno colpito, frustato. Alcuni di noi sono svenuti”, racconta a “Irpi”. Nel 2023, la Garde nationale ha effettuato circa settantamila intercettazioni, oltre ventunomila nei primi quattro mesi del 2024, pienamente appoggiata dall’Italia e dai Paesi dell’Unione europea. E modalità di espulsione simili si verificano anche in Marocco e Mauritania. A Rabat, i migranti vengono fermati da poliziotti in abiti civili, solitamente appartenenti alle Forze ausiliarie, finanziate con fondi Ue; mentre, sulle coste della Mauritania, chi cerca di raggiungere le Canarie è fermato e portato in stazioni di polizia.
Nel caso del naufragio di Roccella Ionica, così come negli altri, il silenzio più allarmante non è quello delle istituzioni, che gestiscono gli eventi migratori come semplici fatti di cronaca, ma quello di un’opinione pubblica sempre più indifferente di fronte alle morti in mare. È necessario continuare a monitorare tutte le frontiere interne ed esterne, per indagare le dinamiche delle stragi e trovare soluzioni alternative alla militarizzazione dei confini e agli accordi con quei Paesi in cui sono sistematicamente negati i diritti umani.