Con tipico understatement i giornali britannici di rado riportano in prima pagina gli eventi che si verificano al di là della Manica. Tuttavia, i risultati delle elezioni europee, il clamoroso spostamento a destra della Germania e le nuove elezioni in Francia, con la preoccupante ascesa dell’estrema destra lepenista, hanno fatto eccezione a questa consolidata abitudine, avendo avuto grande risalto anche sui media inglesi. I giornalisti non hanno mancato di notare la peculiare situazione in cui si trova attualmente il Regno Unito, a otto anni dallo sciagurato referendum in cui la maggioranza dei cittadini votò a favore della Brexit. Infatti, mentre l’Unione europea si sta spostando sempre più a destra, nel Regno Unito è più che probabile che il partito laburista di centrosinistra vada al potere, come abbiamo raccontato recentemente su queste pagine (vedi qui).
Sono in molti però a chiedersi perché la situazione si stia sviluppando in modo diverso Oltremanica rispetto agli altri Paesi europei, e quanto pesino sulle scelte che l’elettorato si appresta a fare proprio le conseguenze della fuoriuscita dall’Unione. Secondo Patrick Diamond, professore di Politiche pubbliche alla Queen Mary University di Londra, è il funzionamento del sistema bipartitico britannico a fornire, di per sé, la spiegazione del perché un primo ministro socialdemocratico, Keir Starmer, potrebbe con ogni probabilità presto insediarsi al numero 10 di Downing Street. “Nel 1997 è stato eletto un governo laburista rimasto al potere per tredici anni. Poi c’è stato un governo conservatore per quattordici anni, e ora probabilmente avremo un altro governo laburista. Questa alternanza fa parte dello schema della politica britannica”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata al colosso della comunicazione tedesca “RedaktionsNetzwerk Deutschland”.
La verità lapalissiana, richiamata dal professor Diamond, è che il sistema bipartitico dell’isola è fondato su un sistema di maggioranza relativa. I cittadini britannici votano per un solo candidato nella loro circoscrizione elettorale. Chi riceve il maggior numero di voti entra nel parlamento, mentre i voti rimanenti vanno dispersi. I politologi sono divisi: per alcuni è evidente come un simile metodo elettorale vada a svantaggio dei partiti più piccoli, mentre altri sono favorevoli, perché permette di tenere sotto controllo i partiti che hanno posizioni estreme. Al di là di queste notazioni “tecniche”, rimane il fatto che la Gran Bretagna, nonostante le aspre difficoltà che ha attraversato negli ultimi anni, è una società aperta, considerata più tollerante di altre. Lo dimostrano la diminuzione delle differenze di reddito tra i gruppi etnici e la presenza consistentissima di esponenti provenienti da svariate origini nazionali in campi professionali di importanza centrale, come la medicina e l’ambito giuridico e legale.
I partiti populisti di destra hanno un seguito relativamente limitato: il partito Reform UK, guidato da Nigel Farage, che ha fatto tutta la campagna elettorale sull’immigrazione, è dato al 16% nei sondaggi, e le ultimissime proiezioni pre-elettorali lo danno in forte calo. Tuttavia, questo non significa che i politici populisti non abbiano alcuna influenza; anzi, nel recente passato, ne hanno avuta fin troppa… Sotto la guida di Farage, il partito indipendentista ed euroscettico Ukip divenne il primo per numero di voti alle elezioni europee del 2014, ottenendo un sorprendente 27%. Un risultato che fu tra le ragioni che spinsero l’ex primo ministro, David Cameron, a indire il referendum sull’uscita dall’Unione.
Farage ha maniere accattivanti e sa parlare la lingua della strada, mentre la leadership dei conservatori appare esangue, tecnocratica ed elitaria. I conservatori, anche per inseguirlo, si sono spostati sempre più a destra sotto i primi ministri Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak. Il problema, però, è che un serio partito di governo non potrà mai superare a destra il populismo. Reform UK sottrae perciò una parte dei consensi ai Tories, che inseguono il Labour con una confusa campagna mirata più che altro a limitare la portata della disfatta, e pare che abbiano eroso qualche punticino nelle intenzioni di voto: sono ora dati al 24%, con il Labour al 39%. Certo meglio dei venti punti di vantaggio di cui erano accreditati i laburisti un paio di settimane fa, ma quindici punti di distacco sono sempre troppi.
Va sottolineato che anche il Labour si è spostato a destra, seguendo una strategia politica piatta, in cui si dice alla gente per lo più quello che vuole sentire. Da quando è diventato leader laburista, nel 2020, Keir Starmer ha lavorato per convincere gli imprenditori e gli elettori che il suo partito è affidabile e non intende allentare i cordoni della borsa aumentando la spesa pubblica. Si è inoltre impegnato a stimolare la crescita economica e ha escluso l’aumento dell’aliquota di diverse tasse. Starmer ha dichiarato che la creazione di ricchezza è la “priorità numero uno” del Labour.
Ma, al di là della propaganda, la valutazione che emerge, da esperti fiscali ed economisti, è che chiunque vinca le elezioni dovrà aumentare le tasse o tagliare la spesa in modo significativo, dato che il Regno Unito è da tempo alle prese con una finanza pubblica in grande sofferenza. Perciò Starmer, una volta approdato a Downing Street, sarà costretto probabilmente a prendere misure impopolari. E se non sarà facile gestire il Paese in nome della ritrovata “stabilità” economica, anche sul piano internazionale non mancano i motivi di tensione: alla base del partito non sono piaciute le posizioni filo-israeliane assunte dal leader laburista nella tragedia di Gaza. Il politologo Diamant fa anche notare che, negli ultimi cinque anni, il Labour, nel suo ripiegamento a destra per attirare più elettori, ha fatto numerosi passi indietro, in particolare sulla questione dell’immigrazione, su cui Starmer ha affermato ripetutamente di volere adottare un approccio molto più rigido di quello del suo predecessore Jeremy Corbyn. Questa tendenza potrebbe addirittura intensificarsi, nel caso che gli altri Paesi europei dovessero perseguire una politica anti-immigrazione più aggressiva, e potrebbe crescere la pressione sui laburisti affinché assumano una posizione più dura. D’altro canto, i Tories, dopo lo stop the boats proclamato da Sunak, si erano ridotti all’espediente propagandistico dell’affaire Ruanda (vedi qui).
Nonostante l’annunciato cambio di testimone al governo sia una svolta significativa, non si intravedono nel Paese segnali di un reale entusiasmo. Gli inglesi certo vogliono un cambiamento, e nel sistema elettorale britannico questo viene quasi inevitabilmente dal Labour, ma, a differenza dello strepitare scomposto di Farage, Starmer non fa grandi promesse e si propone come fautore di un programma modestissimo.
Forse i cambiamenti più rilevanti verranno sul piano delle relazioni con l’Europa. L’eventuale governo laburista avrà subito l’opportunità di prendere parte al vertice della Comunità politica europea previsto vicino a Oxford il 18 luglio. Lo ha dichiarato David Lammy, destinato a diventare il nuovo ministro degli Esteri. “Keir Starmer e io non vediamo l’ora di accogliere i capi di Stato e di governo di tutta Europa”. L’imminente vertice è il quarto incontro nell’ambito di un’iniziativa di dialogo comune lanciata dal presidente francese Macron. Oltre ai rappresentanti dell’Unione europea, e ai capi di Stato e di governo dei suoi Stati membri, parteciperanno i rappresentanti di molti altri Paesi europei. L’obiettivo è quello di migliorare la cooperazione tra l’Unione e i Paesi che non ne fanno parte. Lammy ha inoltre annunciato che, in caso di vittoria elettorale, farà presto visita a diversi alleati, tra cui la Germania. Il governo laburista “in pectore” ha già affermato di volere concludere un vasto accordo di sicurezza con l’Unione. Il patto dovrebbe riguardare anche settori come l’energia e il clima, e una più stretta cooperazione nell’industria della difesa. Tuttavia, Lammy ha escluso per il momento un ritorno in seno all’Unione, anche solo nella forma attenuata dell’unione doganale.
L’ormai certo ritorno al potere dei laburisti nel Regno Unito rappresenta in ogni caso un passaggio storico. La sbornia populista e nazionalista che ha portato alla Brexit sembra passata anche a causa della medicina amarissima che il Paese ha dovuto ingoiare negli ultimi anni, fatta di una contrazione dei livelli di vita senza precedenti, di compressione dei salari e di crollo della qualità dei servizi. L’affermazione del Labour potrebbe avere dunque un significato per l’intera Europa, anche se dovesse in realtà esprimere poco più di un modesto desiderio di ritrovata “normalità” dopo l’avventura sovranista della Brexit. Se veramente la parabola populista ha definitamente concluso la sua traiettoria in Gran Bretagna, lasciando dietro di sé macerie e impoverimento, la lezione potrebbe giungere ad altre orecchie.